La politica che ingrassa la finanza

LavoroPer poter meglio analizzare a riforma del lavoro bisogna partire da una considerazione fondamentale: il lavoro si crea con gli investimenti e con politiche di sviluppo; oggi, invece, domina una cultura economica basata sull’austerità, ovvero il contrario di ciò che servirebbe.
La scelta dettata da chi comanda in Europa, quella cioè di imporre agli Stati il rientro dal debito con l’aumento delle tasse ed il blocco degli investimenti, ha determinato l’aumento della disoccupazione.
Questa politica economica ha, quindi, una conseguenza negativa sul mondo del lavoro. Inoltre oggi si ritiene necessario imporre ai Paesi una politica di contenimento dei salari ed una riduzione delle tutele sociali conquistate fino ad oggi.
All’inizio si è partiti dal descrivere la flessibilità in entrata nel mondo del lavoro come una conquista di libertà, una liberazione dai vincoli sindacali, un tuffo nel futuro dove regnavano felicità e possibilità di diversa occupazione; oggi questa flessibilità la si vuole introdurre anche nell’uscita dal lavoro. Il discorso dei nostri politici a sostegno di questa svolta si basa sull’illusione che, favorendo queste politiche, si favorisca l’occupazione. C’è di che preoccuparsi del loro grado di stabilità mentale, ammesso che siano sinceri. Se invece si vuole “addolcire la pillola” allora è un altro tema: meno diritti e più flessibilità portano solo a più disoccupazione e povertà diffusa.

La riforma del Governo sul lavoro (ci rifiutiamo di chiamarla come fanno tutti con il termine inglese) è figlia di questa cultura, vive dentro questo schema, in particolare là dove facilita le uscite allentando la presa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Inoltre il Governo Renzi, con una timidezza che non gli è propria, non ha avuto il coraggio di eleminare tutte le forme di lavoro precario.
All’interno di questa riforma ci sono anche alcune cose positive, che è giusto evidenziare per onestà e correttezza: ci riferiamo, ad esempio, all’eliminazione della IRAP e alla decontribuzione per tre anni per i nuovi assunti, norma che pure poteva essere fatta meglio e garantita per l’occupazione aggiuntiva. Tutte queste leggi, però, possono essere di aiuto alle imprese per assumere lavoratori solo se queste stesse imprese hanno lavoro: nessuno assumerà nuovi impiegati se non ha commesse, nemmeno se gli si offre di non pagare i contributi.

Ormai è chiaro che la crisi è pagata dai disoccupati in primis e anche dai lavoratori, che in questi anni si sono visti ridurre in modo drastico i salari, anche per effetto dell’aumento della tassazione.
La lotta che si deve impostare è innanzitutto sul cambiamento delle politiche economiche e deve essere chiaro che la ricetta neo liberista ha aumentato a dismisura le differenze sociali: chi era ricco si è visto aumentare il proprio reddito e chi era nella classe media è scivolato sempre più nella povertà, andando ad aggiungersi ai tanti poveri che già c’erano e che ora non hanno nessuna prospettiva di uscita da quella condizione.

La disuguaglianza genera disoccupazione; basta con politiche che ingrassano il mondo della finanza.

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