Le due culture

Ci sono temi ricorrenti. Oggi è di nuovo alla ribalta il dibattito tra cultura scientifica (o piuttosto tecnologica) e cultura umanistica. Non vengono fuori grandi idee, ma il solito piagnisteo: che la crisi economica e in particolare la disoccupazione derivano dal fatto che abbiamo pochi ingegneri, cui dall’altra parte si risponde con qualche elenco di strafalcioni riscontrati nelle risposte degli studenti, per esempio, a domande di storia (Napoleone che perde la battaglia di Zama e così via). Naturalmente non manca l’esaltazione del modello “anglosassone”, che avrebbe il suo nerbo nella tecnologia. Non è vero. Semmai quello che avrebbe voluto fare di ogni suddito un ingegnere era il modello sovietico, i cui risultati non sono stati esaltanti. Naturalmente un vero ingegnere non è soltanto un perito meccanico, ma non vogliamo cadere nel difficile. Piuttosto mi ricordo che, quando io facevo il liceo scientifico – ed erano gli anni del “miracolo italiano” – molte aziende preferivano il perito all’ingegnere, perché l’ingegnere costava di più e in buona sostanza non sapevano come utilizzarlo. Evidentemente la loro tecnologia non era molto sofisticata, ma non si tratta solo di tecnologia: nelle aziende italiane si è sempre preferito il buon esecutore al dirigente eventualmente capace di avere qualche idea. C’è anche dell’altro, si intende. Ai tempi del “boia chi molla”, un dirigente politico calabrese al quale facevo osservare che Reggio Calabria avrebbe perso il ruolo di capitale della Regione ma in cambio avrebbe avuto Gioia Tauro (mi si perdoni: la storia era appena agli inizi e non si sapeva ancora come sarebbe andata a finire) e forse ci avrebbe guadagnato, mi rispose: «No, guardi la Sicilia: Catania è più industrializzata di Palermo, ma Palermo è più ricca di Catania. I soldi seguono la politica, non l’industria». Poveri ingegneri!

In compenso, quando ero poco più di un ragazzo, avevo letto Passaggio a Nord Ovest di Kenneth Roberts (ne avevano tratto anche un film con Spencer Tracy). In sostanza era un romanzo d’avventure ambientato in America durante la guerra dei Sette Anni (1756-1763), senza grandi pretese culturali. Però vi trovai un passo che mi fece riflettere. Ad un certo punto il capo dell’impresa (una spedizione punitiva contro gli Indiani) decide che sia meglio dividere il reparto in due colonne e affidare il comando della seconda ad un giovanotto – l’unico di cultura universitaria – arruolatosi volontario giusto allora. L’interpellato protesta, dichiarandosi digiuno di arte militare e in particolare di guerra nei boschi, ma il capo gli risponde: «Per questo c’è il sergente, che sa tutto. No, mi ci vuole uno come lei, perché ho osservato che le persone che hanno studiato hanno meno delle altre la tendenza a perdere la testa nei momenti difficili». Per me fu una rivelazione: ah! A questo serve la cultura! E questa sarebbe la cultura anglosassone? Averne! Io, fino a quel momento, ero stato educato al principio – immortalato fra l’altro nel famoso Addio giovinezza! di Camasio e Oxilia – «Primi nella scuola, ultimi nella vita!» (mi scuso di questi particolari autobiografici, ma mi sembra giusta che i miei lettori, che presumibilmente sono quasi tutti più giovani di me, sappiano come è stata educata la mia generazione: non siamo stati campioni da imitare, è vero, ma abbiate pietà di noi e riconosceteci qualche attenuante).

Naturalmente, anche allora, c’erano insegnanti di valore i quali sapevano – e professavano – che l’insegnamento scolastico aveva – o almeno doveva avere – carattere formativo più che nozionistico. Del resto, già Michel de Montaigne, vissuto in un’epoca nella quale il nozionismo era di moda, aveva affermato che l’uomo deve avere “una testa ben fatta, più che ben riempita”. Il problema è: che cosa si intende per “ben fatta”? A mio parere significa allenata a ragionare in proprio e a pensare liberamente, utilizzando al meglio l’analisi e la sintesi, e questo si può fare benissimo studiando sia Cicerone sia la teoria dell’evoluzione o i princìpi informatori del giunto cardanico. E in ogni caso non dimentichiamo il nostro immortale Giusti: «Scusate, io venero / se ci si impara / tanto la cattedra / che la bambara» (Le memorie di Pisa). Non esistono due culture, e meno che mai una cultura neolatina e una anglosassone (se non forse nel tiro con l’arco). Le due culture sono quella del principe e quella del servo, e la sola contraddizione possibile è quella posta in essere da chi dichiara ufficialmente – magari nella carta fondamentale del paese – che la sovranità appartiene al popolo e poi in pratica, con pretesti vari, cerca di negargli i mezzi intellettuali per esercitarla di fatto. (a.g.)

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