“Star” Wars sulla pelle dei Curdi

di Gian Guido Folloni

Articolo pubblicato sul giornale di dicembre 2019

Kurdistan? L’etimologia è chiara: è il Paese dei curdi, così come Kazakistan è il Paese dei Kazaki, il Tagikistan quello dei tagiki, eccetera. Ma il Kurdistan non è uno Stato e il termine può solo esprimere l’aspirazione dei quasi 40 milioni di curdi che abitano quella terra di poter vivere la propria legittima indipendenza.

Possiamo dire che il Kurdistan è lo stato mai nato che incarna una speranza negata da secoli. Ma geograficamente la regione è ben identificabile (500.000 kmq circa) e i curdi che abitano quei territori sono da sempre al centro di lotte, di spartizioni, di violente repressioni. Combattono e muoiono, sfuggono a stragi e bombardamenti, rifugiandosi sulle alte montagne; o si spostano profughi, vivono divisi sotto bandiere straniere. Nel Kurdistan geografico si trova il monte Ararat dove, si dice, si arenò l’arca di Noè. La vetta è in Turchia, al confine con l’Armenia.

La “questione curda” dura da molti secoli ma ai giorni nostri è tornata di drammatica attualità perché proprio nella terra dei curdi le grandi potenze e le nazioni di quella regione ancora una volta giocano, nella grande scacchiera del mondo, le mosse che definiscono equilibri, zone d’influenza, controlli di risorse e di posizioni strategiche. 

Di questo gioco dei potenti, delle loro guerre, il martirio e la repressione dei curdi sono effetti collaterali. Divisi tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Armenia, sono la più grande popolazione al mondo a non avere uno stato proprio. In Turchia sono quasi il 30%; in Iran tra i sei e gli otto milioni (ma non esiste un censimento), in Iraq quasi il 20%, in Siria il 10%, piccoli gruppi vivono in Armenia e Azerbaijan e quasi due milioni esuli fuori dai loro territori. 

Popolo antico, la storia dei curdi risale per etnia e lingua, alla distruzione di Ninive da parte del Medi nel 612 a.C. A quel tempo la popolazione di quella regione si fuse con altre tribù indo-europee che dalle terre delle steppe e dagli altopiani attorno al Caspio, si spinsero a sud verso la Mesopotamia.

Marco Polo li nomina nel racconto dei suoi viaggi in oriente. Ma il territorio era già dal Medioevo oggetto di scorribande, rapine, conflitti. L’antico popolo è stato in guerra con gli assiri, invaso e dominato da greci, romani (I secolo d.C.), conquistato poi dall’Islam (637 d.C.), da mongoli, tartari, persiani e ottomani.

Il novecento è il secolo del petrolio e la regione abitata dai curdi è strategica per il controllo di ricchi giacimenti. Nell’interesse delle grandi potenze di allora si consuma pertanto un’altra spartizione sulla pelle dei curdi da cui origina la moderna questione curda.

Alla fine della prima Guerra mondiale, i vincitori (Francia, Inghilterra, Russia, Italia, Stati Uniti) con il Trattato di Sevres (1920) ridisegnarono i confini a spese degli sconfitti (Germania, imperi Austro Ungarico, Ottomano e Bulgaro). Quel trattato è l’unico che riconosce l’esigenza di creare uno stato curdo. Fu scritto ma mai ratificato dagli stessi estensori (con l’eccezione dell’Italia) e la terra promessa ai curdi dai potenti ebbe vita breve. Tre anni dopo, a Losanna furono fissati i confini della moderna Turchia; di quelli del Kurdistan nessuno si prese cura. Il territorio fu smembrato e diviso tra i diversi Stati in cui i curdi vivono tuttora. 

Per capire il perché di quel “tradimento” basta riandare agli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 tra Inghilterra e Francia, nei quali, a guerra ancora in corso, le due grandi potenze coloniali, senza l’opposizione dello Zar, concordarono come spartirsi territori, porti, città, la costruzione di ferrovie e infrastrutture varie, i diritti d’esazione di tributi e il controllo dei governi locali. 

è facile a questo punto comprendere perché ogni tentativo dei curdi di chiedere il diritto a una loro terra sia ignorato, frustrato e represso. Un secolo di lotte civili, di rivendicazioni, di momenti insurrezionali sono fatte passare come azioni terroristiche, perché potrebbero alterare l’equilibrio spartitorio e, nei tempi sempre più a noi vicini, mettere in forse gli accaparramenti degli idrocarburi di cui la regione è ricca.

A Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, c’è un grande giacimento da cui parte l’oleodotto che attraverso la Siria porta al Mediterraneo. Un altro oleodotto parte da Baku (Azerbaijan) diretto a Occidente e passa dalla regione curda in territorio turco. Grandi oleodotti e gasdotti provenienti da Iran, Iraq, Turkmenistan e Azerbaijan transitano e fanno rete proprio dove i curdi vivono.

I fatti più recenti introducono solo all’ultimo capitolo della storia di questo popolo misconosciuto dal resto del mondo, che non ha accesso ad alcun organismo internazionale e al quale, per difendere il sogno della propria libertà e sopravvivere al nemico di turno, non resta che rifugiarsi nelle alte valli.

La divisione del Kurdistan ha spezzato le tribù. Spesso per rivedere i parenti, le famiglie sono costrette a valicare frontiere tra stati in guerra. Organizzati in partiti e fazioni nelle diverse nazioni sono spesso diventati instrumentum regni di politiche altrui, utilizzati perfino gli uni contro gli altri. 

Molte sono le sigle che appartengono alla tormentata vita del popolo curdo: Pkk di Ocalan e il Pdp in Turchia, il Pdk di Barzani e il Puk di Talabani in Iraq, solo per citarne alcune.

Tutte hanno subito persecuzioni e tentativi d’annientamento. 

In Turchia, Il Pkk è sotto il tiro di Ankara dal 1984, anno della sua fondazione. Abdullah Ocalan è in carcere dal 1999. Dichiarato “organizzazione terroristica” da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea, è perseguito come tale, e i bombardamenti nella Turchia orientale da molti anni sono “giustificati” dalla necessità di stanare i “terroristi”. In Europa più volte si è parlato di rimuovere il Pkk dalla lista nera del terrorismo, specie dopo che nel 2013 Ocalan aveva intrapreso la via dei colloqui di pace, ma su pressione USA e turca non si è mai fatto nulla.

In Iraq, nel 1988 durante la guerra con l’Iran la città curda di Halabja, prossima al confine, fu oggetto di bombardamento con armi da parte dell’esercito di Saddam Hussein perché ritenuta arrendevole all’avanzata iraniana. In seguito Saddam giocò spesso sulla rivalità tra le fazioni di Barzani e Talabani concedendo alla fine una certa autonomia amministrativa ai curdi del nord Iraq.

Dopo decenni di sostanziale indifferenza, l’opinione pubblica occidentale ha finito per interessarsi dei curdi, perché essi sono ancora una volta finiti al centro della guerra combattuta nel groviglio di frontiere tra Siria, Iraq, Turchia e Iran. Là dove l’infausta seconda guerra intrapresa dagli USA contro Saddam ha fatto da levatrice allo Stato Islamico.

Già con Saddam i curdi iracheni dagli anni ‘90 godevano di una certa autonomia. Nel 2003, con la morte del Rais, il Kurdistan iracheno è ufficialmente organizzato come realtà federale con proprie istituzioni. Quello siriano (noto come Rojava) è oggi de facto una regione con autonomia politica che Assad non ostacola, anche perché i curdi hanno combattuto l’Isis in appoggio all’esercito siriano ufficiale. Al contrario Erdogan non esita a lasciare aperti i valichi ai miliziani jihadisti che vanno in Siria a combattere.

Si consuma in questo singolare puzzle che il conflitto alimenta l’ultimo tradimento a spese dei curdi. In prima linea contro l’Islamic State, i curdi non per questo sono internazionalmente riabilitati. Anzi, nel 2015 la Turchia ha ripreso a bombardare le postazioni del Pkk che opera in Iraq. I villaggi turco-curdi al confine della Siria non godono di miglior sorte. Per “stanare” i guerriglieri del Pkk Erdogan manda truppe: villaggi distrutti con numerose vittime tra anziani, donne e bambini. Con la sconfitta dello Stato Islamico si completa il paradosso e i curdi tornano a essere bombardati. Da Erdogan la vittoria dei curdi siriani non è vista di buon occhio.

La nascita di una regione curda in Siria, dopo quella in Iraq, potrebbe riaccendere anche in Turchia la fiamma dell’autonomia, se non l’idea, mai del tutto sopita, dell’agognata nazione curda; Ankara ha sempre negato l’identità curda e per Erdogan le loro formazioni restano “terroristiche”. Washington non contrasta. La Turchia è la sede delle basi NATO, dove gli USA hanno un formidabile arsenale di bombe atomiche e Trump lascia semaforo verde all’attacco turco ai curdi siriani. La Russia, sorniona, in Siria protegge Assad e il buon vicinato dei curdi e con Erdogan, al quale ha venduto modernissimi aerei da combattimento, media un pilatesco salvacondotto per far cessare i bombardamenti.

Tutto è tornato come prima. Sulla pelle dei curdi, la guerra in Medio Oriente è ancora figlia degli accordi, delle rivendicazioni, dei protettorati creatisi dopo la fine della prima guerra mondiale

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