Uccidiamo la sanità

di Aldo Giobbio

Il caldo, si sa, non stimola la fantasia. Nulla di strano, perciò, se in questa caldissima estate sono riaffiorate due idee sempre striscianti nelle belle menti di coloro «cui» secondo il Poeta «natura [?] ha posto in mano il freno / delle belle contrade / di cui nulla pietà par che [li] stringa». Le idee sono l’imposta patrimoniale e il taglio alla spesa sanitaria. L’imposta patrimoniale è, nell’universo della fiscalità, la cosa che assomiglia di più al furto. Ne parleremo un’altra volta. Oggi parliamo del taglio alla sanità. Naturalmente la versione ufficiale della proposta è che la riduzione della spesa dovrebbe avvenire senza peggioramento del servizio. Quindi dovrebbe essere ottenuta solo dando la caccia agli sprechi ed eventualmente alle ruberie. Ottima iniziativa. Solo che non si tratta di politica fiscale: sono atti di buongoverno che dovrebbero rientrare in ogni caso nei compiti di una pubblica amministrazione degna di rispetto. Qualcuno ha detto di stare attenti, perché ogni taglio alla spesa pubblica ha effetti recessivi sull’economia. Evidentemente questo signore fa rientrare nella spesa pubblica supposta benefica ai fini dello sviluppo anche l’inefficienza e il furto. Come vedete, siamo al di là persino della “Favola delle api” del compianto Bernard de Mandeville. Se questo è lo stato attuale della scienza economica in Italia c’è proprio da stare allegri. Volendo vedere le cose dal lato positivo, se una caccia agli sprechi e alle malversazioni può portare a risparmi molto importanti, ci si può chiedere che razza di amministrazione abbiamo avuto finora e come potrebbe cambiare di colpo. Alla luce della dottrina economica sopra evocata, ci si potrebbe chiedere anche se il comportamento falloso della pubblica amministrazione sia nato da incapacità in proprio o dall’obbedienza a istruzioni ricevute (da chi?). Ne conseguirebbe una terza domanda: ma allora chi si dovrebbe cambiare? Con riferimento agli interrogativi di cui sopra, uno scettico potrebbe dubitare che con la semplice applicazione delle buone intenzioni enunciate si possano realizzare risparmi consistenti. Pertanto, se il governo pensa di dover arrivare a mettere insieme somme più cospicue, bisognerà arrivare a tagli nella quantità e qualità del servizio. Peggiorare il servizio sanitario, al di là del risparmio direttamente ottenuto, ha ulteriori effetti benefici sia sui conti dello stato sia sull’economia in generale. Curare peggio le persone o non curarle affatto finisce con l’accrescere il tasso di mortalità e abbreviare la durata della vita, con effetti benefici sulla spesa pensionistica, per quanto riguarda lo stato, e con dirottamento della spesa delle famiglie da consumi indispensabili e per così dire obbligati, che il nostro sistema economico si trova sempre più imbarazzato a soddisfare, verso quei consumi superflui e suntuari che gli sono apparentemente più congeniali. Non dimentichiamo che l’assistenza sanitaria, ai suoi tempi, venne inventata per salvare i lavoratori ricuperabili (perché perdere per un’appendicite un tecnico la cui formazione era stata costosa e la cui sostituzione non sarebbe stata immediata?), non per caricare la finanza pubblica e l’economia di vecchi inabili al lavoro, di invalidi e di malati cronici. Analogamente, in guerra bisognava curare il più rapidamente possibile i feriti che si sarebbero potuti rispedire al fronte, non quelli che in ogni caso, quando fossero sopravvissuti, sarebbero risultati inabili al servizio e avrebbero eventualmente potuto maturare una pensione di invalidità per i cinquant’anni successivi. Il modello di riferimento, in ultima analisi, è quello schiavistico, che oggi sembra ritornare di moda (vedi abolizione dell’art. 18). 2 Tutto a posto, dunque? Beh, un’obiezione ci sarebbe. Pericle (ce lo racconta Tucidide) disse una volta che gli Ateniesi non passavano la giornata in piazza d’armi, come gli Spartani; però sul campo di battaglia non erano secondi a nessuno. Secondo lui, ciò dipendeva dal fatto che un cittadino qualsiasi viveva ad Atene meglio di un principe in qualunque altro paese e perciò percepiva la polis ateniese come qualcosa che bisognava difendere, eventualmente anche con il rischio della vita. In sostanza Pericle aveva capito un principio fondamentale: che lo stato è un ambito di solidarietà che non nasce da solo ma richiede per sopravvivere e per svilupparsi cure delicate che si chiamano, in sintesi, buongoverno. Fate tutto quello che potete per far capire al cittadino che è solo uno schiavo, se così vi garba; però non vi meravigliate se, al momento della verità, scappa. (a.g.)

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