Il grido di dolore che si è levato nel Paese alla notizia che dal 30 giugno il cliente potrà esigere di pagare col POS per importi superiori a 30 euro è l’ennesima dimostrazione dell’eccezionale capacità degli italiani di sollevare tempeste in un bicchier d’acqua. Di per sé tutto ciò che introduce la moneta elettronica al posto di quella cartacea (non parliamo di quella metallica) è segno di progresso. Nella fattispecie, poi, si tratta di una novità generalmente gradita dai compratori (si tratta di una scelta, non di un obbligo) e per quanto riguarda gli esercenti chiunque può notare quanti siano quelli che vi hanno già provveduto in proprio, senza aspettare imposizioni, in ossequio al principio di marketing che ciò che va incontro al cliente favorisce l’incremento delle vendite e rafforza la posizione di concorrenza di chi lo pratica nei confronti di chi non lo fa. La disposizione, del resto, anche se entra in vigore solo adesso, risale al governo Monti. Anzi, stupisce che essa sia stata pensata in un momento politico dedito al culto del liberismo per uno dei pochi casi nei quali il laissez faire stava già lavorando di per sé nel senso giusto.
Ma era proprio al consumatore che pensava chi ha fatto la legge? Non andiamo a cercare il pelo nell’uovo. Se l’idea era quella di rendere più difficile l’evasione dell’IVA, le possibilità pratiche sono modeste. Il diritto di chiedere la fattura esisteva già, e se il cliente si asteneva dall’esercitarlo non era per la mancanza di mezzi meccanici ma perché esisteva tra il compratore e il venditore quella che il poeta chiamava corrispondenza d’amorosi sensi e il giurista convergenza d’interessi: per il compratore evitare di pagare l’IVA e per il venditore occultare l’incasso, non ai fini dell’IVA (per lui indifferente) ma dell’imposta sul reddito. Abbiamo detto che pagare con POS è una bella comodità; però non è detto che valga un 22 per cento. Non vorrei cadere nell’apologia di reato. Però a me non sembra che la generale avversione all’IVA (Mehrwertsteuer, Taxe sur la Valeur Ajoutée, Value Added Tax etc.) derivi solo dall’avarizia. Le tasse non si pagano solo per convenienza. Si pagano per motivi estetici (perché sono belle, diceva il compianto Padoa Schioppa) e a volte persino per senso del dovere, patriottismo e spirito civico. Ora, IVA e compagne sono carenti sotto ambedue gli aspetti.
“Valore aggiunto” dovrebbe significare la differenza tra il valore finale di ciò che l’impresa ha immesso nel mercato e il valore dei beni e servizi che la stessa ha acquistato dall’esterno e incorporato nel suo ciclo produttivo: appunto, ciò che essa ha “aggiunto” a quegli acquisti. L’impresa si definisce come un soggetto che produce più di quello che consuma. Il valore aggiunto costituisce la sua giustificazione economica e il modo nel quale lo distribuisce dovrebbe essere la sua giustificazione sociale. Merita menzione il fatto che il termine tedesco Mehrwert sia lo stesso usato da Marx (di solito tradotto in italiano con “plusvalore”), nonostante la più che notevole differenza concettuale in quanto mette insieme salari e profitti, mentre quello di Marx equivaleva di fatto al solo profitto. Ora, anche nei paesi cosiddetti capitalistici, il profitto, almeno in teoria, con il nome di reddito d’impresa (che è una persona giuridica) viene tassato in proprio, mentre una parte dei salari va al fisco come reddito delle persone fisiche, come pure gli andrebbe una parte di quello che finisce nelle tasche degli imprenditori in quanto anch’essi persone fisiche. Queste forme di tassazione vengono effettuate con criteri diversi – essenzialmente di natura politica e sociale – in particolare con aliquote diverse, che tengono conto della diversità dei soggetti. Insomma, anche nelle economie di mercato, si fa pur sempre una certa distinzione tra capitale e lavoro. L’IVA no. Il “valore aggiunto” fa di ogni erba un fascio.
Ma in realtà l’IVA non è nemmeno un’imposta sul valore aggiunto, perché si realizza come una percentuale sul prezzo di vendita del bene o servizio fornito, che ovviamente incorpora non solo la remunerazione dei fattori interni all’azienda ma anche il costo dei beni e servizi che l’azienda ha acquistato da fornitori esterni e che ora deve recuperare. Quindi in realtà è un’imposta sulla cifra d’affari, misurata sull’entità (fatturato) con la quale essa si presenta al consumatore finale.
Una cosa del genere esisteva già e veniva correttamente chiamata IGE (Imposta Generale sull’Entrata). Che IVA e IGE fossero la stessa cosa lo sapevano tutti. La nuova e ipocrita denominazione venne escogitata e introdotta con la scusa che l’IGE aveva un effetto a cascata, perché si applicava anche sugli acquisti intermedi, mentre l’IVA sarebbe stata detratta, e questo anche – anzi, soprattutto – allo scopo di evitare un vantaggio alle aziende che praticavano l’integrazione verticale rispetto a quelle che acquistavano in modo considerevole dall’esterno. Quindi non c’è dubbio che a parità di aliquote l’IVA avrebbe influito sul consumatore finale meno dell’IGE. Però questa considerazione di per sé corretta venne interpretata dai governi come un’autorizzazione ad alzare le aliquote ad libitum. Inoltre la detrazione dell’IVA dai passaggi intermedi fa sì che essa non si ripercuota sul prezzo finale, ma non elimina il fatto di per sé fisiologico che esso incorpori gli acquisti in oggetto, sia pure depurati della loro IVA. Quindi chiamarla imposta sul valore aggiunto, come se solo questo fosse oggetto dell’imposizione, non è particolarmente corretto (qualcuno parlerebbe di fumo negli occhi). La base è più larga.
Un elemento non trascurabile è poi quello della forma sotto la quale il balzello viene esposto. Oggi siamo abituati a vedere, per esempio, un preventivo nella forma “tot + IVA” (mettiamo, in cifre, “euro 350 + euro 77 = euro 427), mentre la dizione corretta sarebbe “tot, del quale IVA” (ossia, nel nostro esempio numerico “euro 427 dei quali euro 77 come IVA”). Vabbè, si dirà, se non è zuppa è pan bagnato: alla fin fine è sempre il cliente che paga. Sì, certo. Però con una differenza: la dizione corretta evidenzia il principio che l’imposta è a carico di chi ha prodotto il valore aggiunto, cosa che fra l’altro gli conferirebbe anche un certo diritto di mugugno, perché in definitiva sia l’impresa sia i lavoratori sono già in altro modo tassati. Ovviamente questo non sarebbe giusto e perciò giustifica che i soggetti in questione cerchino di rivalersi su qualcuno, e non c’è dubbio che in un’economia di mercato il “qualcuno” non possa essere altro che il consumatore finale, pagatore in ultima istanza che non la può scaricare su nessuno. Questo sarebbe comunque difficile da correggere. Però presentare l’IVA come una semplice aggiunta ad una cifra che di per sé sarebbe già definita e completa veicola il messaggio che l’IVA non è una componente del prezzo ovvero una logica conseguenza del processo produttivo ma “qualcosa in più” che viene imposto con atto sovrano e a proposito del quale il venditore svolge solo la funzione di riscuotere per conto del principe, come ai tempi nei quali l’imposta sul macinato veniva riscossa dai mugnai. Sono almeno trecento anni che si discute sulla legittimità delle imposte indirette, ma a questo punto l’IVA non è più vista nemmeno come un’imposta indiretta: è una gabella, un balzello, una tangente, un evidente prelievo arbitrario sui consumi (quindi un attacco diretto al livello e allo stile di vita delle persone), nel più puro stile della finanza ancien régime. E allora a che cosa è servita la rivoluzione francese? I prìncipi che ci governano dovrebbero sempre tener conto del fatto che scherzare con i soldi è un gioco pericoloso (in definitiva tutte le grandi rivoluzioni dalle quali è nato il mondo moderno sono incominciate come rivolte contro il fisco) ma non lo è mai tanto come quando va a colpire certe sensibilità di fondo. (a.g.)
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