Economia? Le premesse

Di Bogar

Riesumare un ex pseudo-blogger e vecchio, quale io sono, e chiedergli di scrivere alcune parole sull’economia, dà la misura della “pazzia” che ha contaminato anche i “virtuosi” di Pane Pace e Lavoro. Ma proprio perché sono pazzi e virtuosi, per questo provocatori, e nella speranza di essere da loro sempre più “contagiato”, aderisco alla loro richiesta: ma alle mie condizioni. Prendere o lasciare.

Per parlare di economia dobbiamo giocoforza parlare non del nostro bel giardino recintato ma iniziare facendoci un’idea di mondo, di uomo, di sviluppo, di solidarietà, di giustizia, di ricchezza, di povertà, di soldi, di volontariato, di cultura, di scolarizzazione, di politica, di ecopolitica, di ecologia: insomma, il tema dell’economia è un tema antropologico. Quale sarebbe l’ideale?

Per cominciare, penserei a una società dove la solidarietà tra le persone diventa “carne”, vita vissuta, vita volentieri vissuta, una società dove nessuno è discriminato né per colore, né per etnia, né per religione, né per sesso. Pensare questo è la “pazzia” di cui in premessa ma mi pare l’unica cosa che ci può far resistere in un mondo come quello odierno.

È di questi giorni ricordare la violenza sulle donne (le scarpe rosse). È da giorni e da mesi che assistiamo, molti di noi inermi ma anche molti di noi carnefici (le parole inermi e carnefici sono spesso in stretta relazione), alla brutale chiusura dei confini marittimi e terrestri per coloro che fuggono da guerre, da fame, da soprusi, da deportazioni: tutto questo a causa di noi occidentali, democratici, che abbiamo portato guerre, abbiamo affamato popolazioni intere per sfruttare le loro risorse, abbiamo imposto con violenza il nostro stile di vita, abbiamo rubato terre. È da anni che, in Italia, il sud è discriminato a favore del nord; ricordate la Torino della FIAT, del secolo precedente, dove sulle porte delle abitazioni veniva esposta la scritta “non si affitta ai meridionali”. E non dimentichiamo gli stermini e gli olocausti che, pur in altra forma, continuano ancor oggi: gli zingari, gli omosessuali e gli ebrei. E si potrebbe continuare all’infinito.

L’ideale sarebbe, invece, una società senza barriere né classi, una società giusta dove, come scriveva San Paolo, “… non ci sono più né giudei né greci, né schiavi né liberi, né uomo e né donna; ma tutti siamo uno nel mistero di Gesù …”. Il punto è proprio questo e, noi duri di comprendonio, dobbiamo farcelo ricordare da un uomo, San Paolo, vissuto duemila anni fa, con un suo trascorso diciamo burrascoso per non dire truce e persecutorio, che improvvisamente si rende conto del male che abita il suo cuore e la realtà che lui respira e rappresenta.

E allora, capite, in una società così concepita, ciò che viene considerato punto di riferimento non è più il denaro o la carriera o il primeggiare. Ciò che conta, e questo è assoluto, è l’uomo, preso nella sua totalità, quindi an- che con i suoi soldi, con le sue capacità, con le sue aspirazioni, con i suoi credo: l’uomo per il valore intrinseco che ha e per la felicità della quale ha diritto, che cerca e che trova solamente in una unità con coloro che ha attorno a sé. Un uomo così, un’umanità così, è già un’idea di “paradiso” quaggiù; infatti, in una società così pensata e così formata e così vissuta ciascuno è retribuito e considerato in quanto persona e non per la sua funzione o per il suo ruolo o per il suo denaro.

In una società così, che chiamerei – usando un termine abusato e spesso travisato o clericalizzato, ma non riesco a trovarne altri – “comunione di popolo” scompare naturalmente ogni tipo di disuguaglianza, perché quello che mi sta accanto è una persona come me, che mangia e dorme come me, che piange e ride come me e questo mi “costringe” a volergli bene e a desiderare che abbia il bene che già io ho. Il desiderio di bene, se è vero, obbligatoriamente diventa lavoro perché si realizzi. E allora come prima conseguenza dovrò affrontare il tema della modalità di utilizzo del mio denaro (come, quando), del bene pubblico, della mia intelligenza, capacità, doti (anche queste messe in comune): uno sforzo titanico perché l’individualismo mi e ci ha presi, si è infiltrato persino nei rapporti tra marito e moglie e tra genitori e figli.

È un ideale impossibile?

Un amico, scomparso alcuni anni fa, Luciano Della Mea, che sicuramente per la sua storia personale non si può inquadrare tra gli idealisti o tra i venditori di fumo, nei suoi numerosi scritti afferma che non potendo cambiare tutto e subito (mi rendo conto che sto volgarizzando il suo pensiero) abbiamo il compito di creare delle “isole di resistenza” dentro un mondo di diseguali. Ecco, alla domanda se è possibile o impossibile si deve rispondere che è possibile, iniziando da noi stessi e con coloro che abbiamo attorno. Se mi è permessa una nota personale, vi rivelo che già questo compito è al primo posto nei miei pensieri e nella mia vita.

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