Il contenuto del primo articolo della Costituzione riguarda il vivere civile: vivere del lavoro delle proprie mani. Ne discendono molti dei doveri disciplinati nel seguito della Carta, in primis quello di pagare le imposte per contribuire con il proprio reddito alla vita comune.
Uno degli operai della FIAT, che neppure il diritto proclamato da una sentenza può proteggere, ha dichiarato in un’intervista che il lavoro non è solo stipendio ma dignità e possibilità di felicità: in quelle parole abbiamo letto la stessa richiesta dei giovani che continuano a studiare senza prospettiva, degli insegnanti precari che in numero esagerato rimarranno fuori della scuola anche nel prossimo anno scolastico, dei ricercatori che emigrano, dei clandestini operai agricoli, colf, badanti che non sanno come vivere senza il lavoro delle proprie mani e perciò si sentono derubati di ogni bene.
Si lavora certo per mangiare, per sopravvivere, per garantirsi la vecchiaia, ma l’uomo, nella quotidianità, più complessivamente, vive il bisogno di compimento di sé, la ricerca del bene personale e sociale e bisognerebbe quindi poter lavorare anche per essere protagonisti dello sviluppo personale, famigliare, sociale. Bisognerebbe poter imparare che il lavoro umano è partecipazione alla vita comune. La dignità che la Costituzione vuole promuovere e tutelare va in tale direzione.
Vogliamo riportare all’attenzione questo aspetto del lavoro umano che ha a che fare con la vera ricchezza della povera gente. Giorgio la Pira, che fece il sindaco per occuparsene, nel 1958 scriveva: “la sorte dei lavoratori in Italia; la stabilità del loro lavoro e del loro pane: il loro avvenire è sempre e solamente nelle mani di questi padroni “anonimi” che dispongono senza controllo alcuno del destino delle loro aziende. Un’azienda chiude: duemila operai sono licenziati: chi controlla? Chi dà garanzie e giustizia? Nessuno: la cosa più preziosa dell’uomo (..) il lavoro, è nelle mani incontrollate (spesso avare e impure) del “padrone”! L’azienda viene chiusa; gli operai licenziati; l’economia nazionale ferita; la pace sociale turbata; le famiglie disgregate; Chi controlla? Chi garantisce? Chi giudica? Nessuno”.
Oggi il lavoro, quando c’è, è schiavitù: i diritti sono sempre più messi in secondo piano, prevale la paura, il timore diffuso di perdere il lavoro e allora ci si mette a testa china a fare, a non pensare, a ignorare l’altro. La schiavitù porta all’individualismo e l’individuo è facile preda del potere. Si rende precario anche ciò che non lo dovrebbe essere. E, quando il lavoro non c’è, si capisce bene che non c’è innanzitutto un’idea grande del nostro paese, non c’è il desiderio del suo sviluppo, c’è solo burocratico menefreghismo, chiusura e assoluta mancanza di un’idea comune per la quale, se necessario, fare sacrifici.
I responsabili della nostra vita pubblica portano questo peso. Troppo si è calpestato e la ricchezza è diventata affare esclusivo dei “furbetti” che accumulano sempre maggiori patrimoni. Ma anche ognuno di noi porta in parte la responsabilità di aver abbandonato la politica: non l’immondizia che si accumula nelle case di partito, ma l’azione coraggiosa e fiduciosa per interferire e costruire, per rinascere insieme.
La proposta del PPL è trovarci, parlare, abbattere i muri del silenzio e della disperazione, cercare un’azione che ridia vita e spessore a ciò che la Costituzione conserva come tesoro di valori, tesoro sempre più saccheggiato da persone avide e sole.
Fondati sul lavoro
Il contenuto del primo articolo della Costituzione riguarda il vivere civile: vivere del lavoro delle proprie mani. Ne discendono molti dei doveri disciplinati nel seguito della Carta, in primis quello di pagare le imposte per contribuire con il proprio reddito alla vita comune.
Uno degli operai della FIAT, che neppure il diritto proclamato da una sentenza può proteggere, ha dichiarato in un’intervista che il lavoro non è solo stipendio ma dignità e possibilità di felicità: in quelle parole abbiamo letto la stessa richiesta dei giovani che continuano a studiare senza prospettiva, degli insegnanti precari che in numero esagerato rimarranno fuori della scuola anche nel prossimo anno scolastico, dei ricercatori che emigrano, dei clandestini operai agricoli, colf, badanti che non sanno come vivere senza il lavoro delle proprie mani e perciò si sentono derubati di ogni bene.
Si lavora certo per mangiare, per sopravvivere, per garantirsi la vecchiaia, ma l’uomo, nella quotidianità, più complessivamente, vive il bisogno di compimento di sé, la ricerca del bene personale e sociale e bisognerebbe quindi poter lavorare anche per essere protagonisti dello sviluppo personale, famigliare, sociale. Bisognerebbe poter imparare che il lavoro umano è partecipazione alla vita comune. La dignità che la Costituzione vuole promuovere e tutelare va in tale direzione.
Vogliamo riportare all’attenzione questo aspetto del lavoro umano che ha a che fare con la vera ricchezza della povera gente. Giorgio la Pira, che fece il sindaco per occuparsene, nel 1958 scriveva: “la sorte dei lavoratori in Italia; la stabilità del loro lavoro e del loro pane: il loro avvenire è sempre e solamente nelle mani di questi padroni “anonimi” che dispongono senza controllo alcuno del destino delle loro aziende. Un’azienda chiude: duemila operai sono licenziati: chi controlla? Chi dà garanzie e giustizia? Nessuno: la cosa più preziosa dell’uomo (..) il lavoro, è nelle mani incontrollate (spesso avare e impure) del “padrone”! L’azienda viene chiusa; gli operai licenziati; l’economia nazionale ferita; la pace sociale turbata; le famiglie disgregate; Chi controlla? Chi garantisce? Chi giudica? Nessuno”.
Oggi il lavoro, quando c’è, è schiavitù: i diritti sono sempre più messi in secondo piano, prevale la paura, il timore diffuso di perdere il lavoro e allora ci si mette a testa china a fare, a non pensare, a ignorare l’altro. La schiavitù porta all’individualismo e l’individuo è facile preda del potere. Si rende precario anche ciò che non lo dovrebbe essere. E, quando il lavoro non c’è, si capisce bene che non c’è innanzitutto un’idea grande del nostro paese, non c’è il desiderio del suo sviluppo, c’è solo burocratico menefreghismo, chiusura e assoluta mancanza di un’idea comune per la quale, se necessario, fare sacrifici.
I responsabili della nostra vita pubblica portano questo peso. Troppo si è calpestato e la ricchezza è diventata affare esclusivo dei “furbetti” che accumulano sempre maggiori patrimoni. Ma anche ognuno di noi porta in parte la responsabilità di aver abbandonato la politica: non l’immondizia che si accumula nelle case di partito, ma l’azione coraggiosa e fiduciosa per interferire e costruire, per rinascere insieme.
La proposta del PPL è trovarci, parlare, abbattere i muri del silenzio e della disperazione, cercare un’azione che ridia vita e spessore a ciò che la Costituzione conserva come tesoro di valori, tesoro sempre più saccheggiato da persone avide e sole.