di Aldo Giobbio
Schengen addio? La notizia che paesi come la Svezia e la Danimarca stanno elaborando misure di restrizione all’ingresso degli emigranti che in sostanza ridimensionano l’accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione Europea hanno suscitato l’ipocrita indignazione delle pinzochere dell’Unione Europea, sempre preoccupate di salvarne l’apparenza ma non la sostanza. È vero che l’accordo sulla libera circolazione della persone è stato una delle poche decisioni presentabili anche davanti a chi si preoccupa della fedeltà dell’Unione all’ispirazione originaria, ed è quindi altrettanto vero che rimetterlo in causa suscita una certa, ben comprensibile amarezza anche fra gli europeisti che ci credono sul serio. Resta il fatto che lo spirito dell’accordo riguardava evidentemente la libera circolazione, all’interno dell’Unione, dei cittadini degli Stati membri, e non un diritto illimitato per gli Stati in questione di fungere da canale per l’ingresso nell’Unione di masse migratorie provenienti dall’esterno, tanto più che i paesi meta finale degli immigranti non sono quasi mai quelli di primo sbarco. Naturalmente l’accoglienza e il trattamento degli immigranti restano problemi enormi che coinvolgono direttamente i valori di giustizia che di solito attribuiamo alla comune cultura europea, ma è evidente che, proprio per questo, devono essere trattati a livello comunitario e non lasciati ai singoli Stati, che, coinvolti in misura diversa, cercano di tutelare interessi diversi. Si dirà che proprio per questo risulta difficile se non impossibile mettere in piedi una politica comune, ma proprio questo è il punto: l’Europa sta andando a pezzi, sul problema dell’immigrazione come su tanti altri, e questo è il vero problema; il resto viene più o meno da solo.
Si dirà: quella di oggi non è solo immigrazione, come nell’Ottocento; qui siamo di fronte a qualcosa che assomiglia di più ai grandi spostamenti di popoli che avvennero alla fine dell’Impero Romano e agli inizi del Medio Evo o all’invasione delle Americhe (quella volta da parte degli europei) dal XVI al XIX secolo. Quest’ultima, fra l’altro, fu accompagnata da ampi stermini delle popolazioni autoctone, motivo per il quale si possono anche capire certe preoccupazioni. Oggettivamente, si può occupare senza grandi spargimenti di sangue un continente vuoto, ma la cosa si complica se lì c’è già qualcuno. Si potrà anche osservare che in fondo i barbari del V secolo d.C. si amalgamarono abbastanza bene con le popolazioni italiche o galliche romanizzate, e questo è vero. Però ci sono alcune osservazioni da fare: primo, non erano poi tanto barbari; secondo non erano tanto numerosi; terzo, lo spazio (anche in Italia e ancor più nelle Gallie) non mancava, mentre oggi l’Europa è già intasata di suo. Per inciso, il sacro romano imperatore Carlo Magno, con i Sassoni, si comportò malissimo, benché anche lui, in fondo, fosse figlio di immigrati.
In realtà, fenomeni di tale ampiezza assomigliano molto a quello che in fisica avviene con i vasi comunicanti. Dislivelli tra bacini adiacenti possono sussistere solo quando manca la comunicazione. È del tutto evidente, per esempio, che gli europei non si potevano riversare sulle Americhe quando ne ignoravano persino l’esistenza. La causa principale della pressione sull’Europa di popolazioni geograficamente non lontanissime e ormai non isolate dipende essenzialmente dai diversi livelli di sviluppo, avendo come causa concomitante anche crisi locali per altro in buona parte riconducibili a quella principale. Capisco che una considerazione di questo genere possa sembrare catastrofica, perché significa che in ultima analisi neppure l’Europa può farcela da sola a governare pacificamente i fatti, e che in realtà per prendere in mano risolutamente e con efficacia la situazione ci vorrebbe una cooperazione su scala mondiale, che è ancora meno probabile. Però ignorare i fatti è, fra tutti, ancora l’atteggiamento peggiore. (a.g.)
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