di Aldo Giobbio
Come tutti sanno, agosto è il mese delle “bufale”. Quest’anno ci ha pensato l’inesausto Salvini con la proposta di ristabilire il servizio militare obbligatorio. Nell’insieme l’idea è stata accolta piuttosto male, anche se l’obiezione più sostanziale è stata “e dove metteremo le reclute, visto che ci siamo vendute le caserme?” – osservazione non priva di un certo elementare buonsenso ma non di grandissimo spessore morale. In realtà l’alternativa servizio volontario / servizio obbligatorio è vecchia, se non proprio come il mondo, certamente come la civiltà nella quale ancora bene o male viviamo. Pericle faceva consistere quella che lui riteneva la superiorità strategica degli ateniesi rispetto a Sparta, Corinto e compagni della Lega del Peloponneso nel fatto che i loro eserciti erano composti di contadini che potevano combattere solo quando non erano impegnati dal lavoro nei campi, mentre l’esercito ateniese era composto principalmente da padroni di bottega che comunque non facevano niente tutto l’anno, salvo bighellonare nell’agorà parlando di politica (in bottega ci stavano i garzoni). Anche l’esercito romano incominciò come esercito cittadino ma poi andò avanti, ancora in età repubblicana, come esercito di mestiere. E così giù per i secoli, con alti e bassi, a seconda delle circostanze e delle necessità, ma in ogni caso optando per l’una o l’altra soluzione in base a considerazioni pratiche piuttosto che etiche. L’idea dell’esercito di cittadini venne ritirata fuori dal Machiavelli ma respinta, in un saggio che si chiamava appunto “Antimachiavel”, da un Federico di Prussia allora ventenne e non ancora Federico II e meno che mai Federico il Grande (Friedrich der Grosse). L’argomentazione del giovane Kronprinz era che un esercito efficiente richiede selezione, disciplina e lungo addestramento – tutte cose che non si improvvisano – e, insomma, che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai dilettanti.
L’idea del “popolo in armi” rinasce con la Rivoluzione francese ma assomiglia più alla “levée en masse” (non sconosciuta nemmeno prima, anche se di fatto non praticata negli ultimi tempi) che alla coscrizione obbligatoria quale si sviluppò nel XIX secolo. Del resto già la Grande Armée di Napoleone aveva ben poco a che fare con i volontari dell’anno II. In ogni modo, il servizio di leva nel senso moderno fu inventato ai primi dell’Ottocento da due ufficiali prussiani, Scharnhorst e Gneisenau, per evadere la clausola del trattato di pace, pesantemente imposto da Napoleone dopo la sconfitta prussiana nella campagna del 1806, che vietava alla Prussia di tenere sotto le armi più di centomila uomini. Supposto che la leva potesse dare 50 mila uomini l’anno, i geniali innovatori escogitarono una ferma di due anni con possibilità di richiamo fino ad una certa età. In questo modo la clausola del trattato di pace veniva formalmente rispettata, ma, per esempio, dopo dieci anni la Prussia avrebbe potuto schierare mezzo milione di uomini addestrati. La ciliegina sulla torta fu messa da un altro prussiano, Jahn (detto Vater Jahn, papà Jahn), che inventò una ginnastica paramilitare che avrebbe consentito ai congedati di mantenersi in forma tra un richiamo e l’altro.
Questo, compresa la fioritura delle società ginnico-sportive, fu il modello universalmente seguito fino alle due guerre mondiali e anche dopo. Il suo vantaggio principale fu di mantenere bassa la paga del soldato in anni nei quali la Rivoluzione industriale, aprendo nuove occasioni di lavoro che, fra l’altro, incoraggiavano lo spostamento dalla campagna alla città, agiva anche come disincentivo all’arruolamento volontario e avrebbe quindi costretto i governi ad alzarla. Aveva però anche i suoi svantaggi, il principale dei quali era che, nonostante il progressivo aumento numerico della forza amministrata, il gettito della leva era quasi sempre superiore alle esigenze in tempo di pace, anche perché i governi normalmente imponevano ferme più lunghe (tre, quattro, cinque, sette, persino venti anni, come in Russia). Un modo largamente adottato in Europa per aggirare questo inconveniente fu di incorporare solo una parte del contingente, estraendo a sorte (il famoso “numero basso”). Non c’è dubbio che questa pratica abbia introdotto nel sistema un fattore di ingiustizia che il popolo percepiva sfavorevolmente, soprattutto quando gli venne associata la possibilità, per chi fosse stato sfavorito dalla sorte, di pagarsi un sostituto: in pratica, il servizio militare lo facevano solo i poveri.
C’erano alternative? Naturalmente. Per esempio il sistema svizzero, ammirato anche da patrioti italiani come Gioberti e Cattaneo. “Il francese non riesce a dormire se non ha 400 mila uomini sotto le armi. Lo svizzero – scriveva Cattaneo – dorme magnificamente con la sua carabina appesa a capo del letto”. Certo, la Svizzera è un paese di montagna, non ha coste marittime etc. Però è anche un paese che non ha mai avuto colonie e che fin dal 1814 ha proclamato la rinuncia a guerre di aggressione. Certo, per altri paesi, come l’Italia, la Francia, la Spagna, il modello non sarebbe applicabile sic et simpliciter. Però è estremamente probabile che per tutti la soluzione consista in modelli complessi che integrino, in proporzioni diverse, professionisti, riserve addestrate, guardia nazionale, specialisti a disposizione, collaborazione con centri di ricerca civili e quant’altro potrebbe emergere da un esame sereno e lungimirante.
Il servizio militare non è il babau. Però in Italia (non solo in Italia, certo) non è mai stato concepito nel modo giusto. La leva obbligatoria non è mai stata vista come un supporto, un aiuto a un quadro permanente supposto autonomo, una connessione utile e a volte necessaria tra il militare e il civile, tendente a diventare indispensabile con l’evoluzione del conflitto verso la guerra totale. I professionisti sono sempre esistiti, ma solo in veste di quadri, insufficienti per compiere un’azione in proprio ma concepiti come un’intelaiatura che doveva essere riempita con la massa proveniente dalla coscrizione obbligatoria. È stata fatta molta retorica sul popolo in armi, la nazione armata e così via, ma in realtà lo stato italiano non ha mai temuto nulla quanto il fucile nell’armadio di casa. L’esercito cosiddetto di popolo era in realtà l’esercito di caserma. Il militare e il civile dovevano essere rigorosamente separati e il comando restare ai professionisti. Un ufficiale di complemento poteva diventare al massimo tenente colonnello. Il fante era carne da cannone.
Questa concezione si ritrova nell’inattesa nostalgia di Salvini. Non sono in gioco valutazioni strategiche. La patria non è in pericolo (per lo meno non un pericolo che possa essere scongiurato con il servizio di leva). L’affermazione che l’esercito di leva possa rendere, come ha già fatto, un servizio utile nelle calamità naturali, la difesa del territorio et similia si può prendere per buona ma è fuori luogo. Un conto è utilizzare sporadicamente uno strumento che esiste già, anche se la sua missione specifica è un’altra; altro è metterlo in piedi dal niente, dargli scopi e preparazione di altro genere e poi utilizzarlo impropriamente per ciò che non è stato chiamato a fare. Se esiste, come sembra innegabile che esista, un problema di difesa del territorio, la risposta corretta è sviluppare la protezione civile, utilizzando uomini e mezzi direttamente e non solo in modo marginale. In realtà quella di Salvini sembra un’argomentazione pretestuosa. Molto più sincere sembrano le nostalgie per un’educazione di tipo autoritario, diciamo pure parafascista, tendente a formare più il suddito che il cittadino. Non è un caso che le poche voci che si sono levate a suo favore non abbiano toccato argomenti strategici (come avrebbero fatto ai tempi della guerra fredda) né economici né tecnologici ma, quando non sono stati meri esercizi di retorica, siano sempre girati intorno a temi
come l’ordine e la disciplina, che non sono valori da trascurare ma non si conseguono con i gavettoni e le camere di punizione. (a.g.)
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