La redazione
Pubblicato sul numero di dicembre 2019
Nei notiziari internazionali si è ripreso a parlare ogni giorno dell’America Latina. E, questo, non perché il mondo occidentale sia interessato a quanto stia “davvero” succedendo in America Latina, ma perché si avvicinano sempre più le elezioni nordamericane del 2020 e si sa che i contendenti in gara faranno, in qualche modo, dell’America Latina un’arma o uno scudo per la loro campagna.
Per il presidente degli Stati Uniti poter dire che sono stati definitivamente sconfitti, durante il suo mandato, sia il sogno bolivariano sia il liberalismo dal volto latino-americano non è una carta da poco. In tre anni, il governo Trump o il partito repubblicano possono vantare di aver tolto di mezzo sia i rappresentanti più tipici del sogno bolivariano, sia le voci più nuove e interessanti di una via “diversa” di governare, tanto in politica come in economia. Può, inoltre, affermare di aver permesso che andasse al governo, in Messico, un presidente non allineato agli USA, ma molto disponibile a far da muro all’immigrazione. Se, poi, gli USA dichiarassero che il narcotraffico è terrorismo, come stanno suggerendo in questi giorni, si aprirebbe la possibilità – sognata da Trump fin dai primissimi inizi della sua campagna elettorale nel 2015 – di invadere militarmente il Messico, quando se ne vedesse l’opportunità politica. I democratici, da parte loro, possono dire che la gente non è d’accordo con questi cambiamenti, viste le insurrezioni popolari che stanno da tempo emergendo, in forma più o meno violenta, in Cile, in Colombia, in Brasile, per non parlare del Venezuela, della Bolivia e del Nicaragua.
Insomma, di fronte alle tante notizie che circolano sul Sudamerica, sul Centroamerica e sul Messico, non possiamo permetterci di essere ingenui: come ben lo denunciò Bernie Sanders nella sua campagna elettorale del 2016, gli Stati Uniti sono convinti di dover dominare su tutta l’America Latina, di esserne il padre/padrone, il mentore e il promotore di una democrazia stile USA.
Alle grandi potenze interessano i “beni” dell’America Latina, ma i problemi reali che la gente ha nella quotidianità interessano solo alla gente che in questi paesi ci vive. E purtroppo questa gente viene informata, in merito alla sua stessa situazione politica ed economica, solo da quei mass media, televisioni, reti sociali e anche serie televisive le cui fonti hanno il loro punto di origine altrove. E così i criteri e le notizie che circolano, ripetute a non finire, continuano a immergere il popolo latino-americano in una grande confusione, lo inondano di molta paura e sono la causa reale della quasi irrimediabile polarizzazione delle posizioni interne a ogni paese. Questo, ovviamente, è molto grave, perché i paesi si trovano tremendamente divisi al loro interno, sono schierati in due bande “nemiche”, e non possiamo certo definire questi schieramenti con gli antichi aggettivi di “sinistra” o “destra”, di “a favore del socialismo” o “a favore del fascismo”, “ci vuole la dittatura” o “viva la democrazia”.
Quel che possiamo affermare è che nessun presidente, da solo, nonostante il presidenzialismo sia un principio ancora molto diffuso e potente in America Latina, ha la bacchetta magica per risolvere i problemi acuti e reali che si trova ad affrontare chi vive in questi paesi: la violenza ingovernabile, la disuguaglianza sociale, la povertà estrema, la pluralità di culture continuamente negata o attaccata, l’ingiustizia, l’impunità, la mancanza di un’assistenza sanitaria degna, un sistema educativo che lascia molto a desiderare, una polizia impreparata e spesso inaffidabile. L’esigenza più urgente è che nascano centri di formazione di una classe politica che sia “diversa”, appunto perché uno non governa da solo, non cambia il suo mondo da solo, nemmeno in un paese piccolo come l’Uruguay, modello per tanti ed ora in mano a un preoccupante cambio di prospettiva politica, dopo le elezioni appena avvenute.
La cosa più inquietante è che tutti questi cambiamenti non indicano alternanza, bensì sono fattori che solo stanno minando quella che era una forza dell’America Latina, la forza della speranza a cui si è sostituito qualcosa che rasenta la disperazione e il disincanto più acuto. La gente di ogni paese dell’America Latina teme che il proprio paese possa diventare come il Venezuela, un paese, come tutti sappiamo, in piena crisi umanitaria, una crisi umanitaria generata da ragioni veramente vergognose, ragioni che qui non c’è lo spazio per analizzare. Questo venir meno della speranza non si dovrebbe permettere. Ben vengano perciò tutte quelle iniziative culturali che aiutino a inventare una democrazia latino-americana, così che nessuno abbia più a definirla, come fece Marta Lagos, una democrazia malata di un diabete irreversibile.
Ci sono soluzioni e proposte politiche ed economiche molto innovative, frutto del lavoro di economisti, politici, filosofi, lavoratori, docenti e studenti latino-americani, ma sembra che tutto cooperi a che vengano chiusi gli spazi per rendere concrete queste “utopie” che nascono da gente latino-americana, rispettosa quindi della storia dell’America Latina, del suo modo di sentire, del suo modo d’essere così vibrante e così capace di pazienza e di ribellione. Non si tratta di “protezionismo culturale”, bensì di dar spazio a un’intelligenza operativa che nasce da una molteplicità di culture ricche di saggezza e di buon senso. L’America Latina è un continente capace di passione e di docilità, due virtù su cui dovrebbero essere ricostruite le basi di un modo di fare politica; solo da dei centri culturali molto attenti a non farsi prendere la mano dalla cultura dominante in occidente può rinascere la speranza. Si tratta di un lavoro “pre-politico” a cui dedicarsi perché possa prendere vita il nuovo che salva e che si potrà poi donare o proporre anche a coloro che pensano già di sapere come sia meglio governare ed essere governati, a coloro che sempre pensano che il fine giustifichi i mezzi.
Es un vistazo cercano a nuestros territorios.