di Aldo Giobbio
Come purtroppo era prevedibile, il dibattito sull’articolo 18 si sta spappolando in un guazzabuglio di velleità e di contraddizioni, che oltretutto ne mettono sempre più in evidenza il carattere ideologico (del dibattito, non dell’articolo). Ma c’è anche di peggio: dal tentativo di far finta di voler accontentare tutti emerge irresistibilmente il vizio nazionale di voler fare le nozze con i fichi secchi, ossia di formulare proposte che, per avere un futuro, dovrebbero poter contare su risorse materiali che non ci sono e alla cui mancanza si cerca eventualmente di sopperire scaricandone l’onere sui soliti cirenei. Visto che ormai siamo alle parole in libertà, non si neghi ad un semplice cittadino il diritto di dire anche lui la sua, con una modesta proposta che qui vorremmo così riassumere nei suoi aspetti tecnici.
Ecco lo scenario. Indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, il datore di lavoro che ritiene di dover licenziare un dipendente dovrebbe innanzi tutto darne comunicazione preventiva alla rappresentanza sindacale aziendale, la quale ha il dovere di esporre il proprio parere ed eventualmente proporre la sua mediazione, che le parti hanno il diritto di rifiutare. Questa consultazione si deve svolgere in tempi brevissimi e, qualora non porti a conclusioni accettate, le parti hanno il diritto di procedere secondo quelli che ritengono i propri interessi: il datore di lavoro manda la lettera di licenziamento, il lavoratore ricorre alla magistratura del lavoro. Dei colloqui svolti si deve tenere un verbale debitamente sottoscritto dalle parti, i cui originali rimangono presso di loro ma devono essere tenuti a disposizione dell’autorità giudiziaria nel caso la vertenza prosegua in quella sede.
Posto di fronte al problema, le opzioni sulle quali il giudice del lavoro deve deliberare sono le seguenti:
1) licenziamento disciplinare: il giudice può trovare che l’azienda ha torto marcio, e in tal caso ordina il reintegro puro e semplice, eventualmente integrato da un certo compenso per il danno morale;
2) licenziamento disciplinare: il giudice può dar ragione all’azienda, e in tal caso ratifica il licenziamento;
3) licenziamento disciplinare: il giudice può trovare che il lavoratore, in effetti, qualcosa ha fatto, ma non così grave da giustificare una misura estrema come il licenziamento. In tal caso può invitare le parti a trovare entro brevissimo tempo (diciamo quindici giorni) una soluzione accettabile per ambedue (per esempio, se le dimensioni dell’azienda lo consentono, un trasferimento accompagnato da un concorso spese debitamente arrotondato). Se l’accordo non si trova, il giudice decide lui, imponendo il reintegro oppure ratificando il licenziamento (tenendo conto anche del comportamento delle parti durante la trattativa). Però nel caso del licenziamento riconoscerà al lavoratore un congruo indennizzo in moneta, per la valutazione del cui ammontare dovrà tener conto dell’anzianità, della distanza dalla pensione, dei precedenti, della collocazione più o meno competitiva nel mercato del lavoro e così via, insomma di tutto quanto l’equità del buon giudice può suggerire;
4) licenziamento per giustificato motivo (per esempio, il venir meno della mansione): il giudice può trovare che la motivazione formale è pretestuosa e in realtà cela il desiderio di sbarazzarsi di quella persona per motivi inconfessabili (assumere qualcun altro che si ritiene più malleabile oppure disposto a lavorare in nero, et similia). In tal caso ordina l’immediato reintegro e infligge all’azienda, per aver cercato di trarre in inganno la giustizia, un multa il cui ricavato potrebbe essere versato o direttamente al fisco o a qualche ente di beneficenza accertato e riconosciuto (vittime di incidenti sul lavoro o cose del genere);
5) licenziamento per giustificato motivo: il giudice riconosce che l’azienda si trova nell’effettiva necessità di licenziare e, una volta constatata l’impossibilità di trovare altre soluzioni, ratifica il licenziamento, stabilendo una congrua indennità. L’entità di quest’ultima è molto importante, perché il costo degli eventuali licenziamenti deve rientrare – molto per tempo, possibilmente – nei conti dell’azienda quando progetta modifiche nella tecnologia di processo. L’ammontare non deve essere così alto da scoraggiare l’innovazione, ma nemmeno così basso da scaricare sui lavoratori l’intero costo dell’operazione. Questo non c’entra, naturalmente, con il trasferimento di impianti, la chiusura di stabilimenti (o anche solo di interi reparti) a causa della recessione e così via, che è materia che riguarda i licenziamenti collettivi veri e propri.
A questo punto il lettore che ci avesse pazientemente seguito fin qui dirà: “Bella scoperta! Ma i tedeschi non fanno già più o meno così? Perché non imitiamo semplicemente i tedeschi, come del resto più d’uno suggerisce?”. Non li imitiamo perché, per farlo bene, occorrono le seguenti cose:
1 – Giudici del lavoro che siano nelle condizioni per poter emettere sentenza in tempi brevi (non dimentichiamo che nel 1970 si parlava di 60 giorni). Una sentenza che arriva dopo anni costituisce ingiustizia nei confronti del lavoratore ma anche del datore di lavoro che, quali che siano i suoi torti, non può essere condannato a pagare innumerevoli mensilità di salario arretrato, salario dovuto, certo, ma al quale non ha corrisposto la controprestazione di lavoro;
2 – Ragionevole certezza circa i comportamenti che possono configurare giusta causa di licenziamento disciplinare. Finora c’è stata incertezza persino in presenza di reati veri e propri, sui quali non ci dovrebbe essere discussione. A maggior ragione converrebbe essere espliciti su cose meno chiare: per esempio, che cosa si intende per “comportamento irrispettoso verso un superiore”? Dargli del cretino in presenza di testimoni o non salutarlo per primo se lo si incrocia in un corridoio?
3 – Un ceto imprenditoriale che non si consideri in guerra con la magistratura.
4 – Una cultura d’impresa che non consideri i lager nazisti come un modello insuperabile, pur ammettendo che la tristizia dei tempi ne impedisce la realizzazione perfetta.
5 – Una gestione del collocamento attiva ed efficace.
6 – Risorse sufficienti per far funzionare un sistema di ammortizzatori sociali, in primo luogo le indennità di disoccupazione, adeguato alle esigenze (nella Great Depression degli anni ’30 il sistema inglese e quello americano furono capaci di mantenere – non riccamente ma senza farli morire di fame – milioni di disoccupati “on the dole”).
Quante di queste condizioni sono oggi presenti – o almeno realizzabili in tempi brevi – in Italia? Dalle risposte che ciascuno ritiene di poter dare dipende il minore o maggiore ottimismo circa la fattibilità e i successivi possibili effetti di un’eventuale riforma del lavoro. In termini più positivi, può dipendere anche una riflessione su quali siano i punti dai quali sarebbe più opportuno incominciare.