Campagna Culturale 2018 – Il lavoro

In periodo elettorale il tema del lavoro è certamente uno dei temi che di colpo diventano più popolari; in questi giorni ogni forza politica è pronta a dirsi drammaticamente preoccupata per la sorte dei cittadini e a garantire il proprio incondizionato appoggio ai lavoratori.

Ascoltando questi interventi, però, ogni tanto affiora quel concetto pericoloso e tremendo che a nostro parere sottace alle politiche sul lavoro di tutti questi anni e che, inculcatosi nella mentalità di ciascuno, è stato ciò che ha permesso che quelle stesse politiche prendessero piede: il lavoro è appiattito nell’equivalenza con il salario, il suo valore è direttamente proporzionale alla capacità di produrre beni o servizi ed il lavoratore di conseguenza diventa un fattore di produzione.

Quando i politici ammettono di porre sullo stesso piano un lavoratore e la macchina che compie la stessa mansione è molto chiaro che nella logica che andrà a formulare le politiche di quei partiti il lavoratore è disumanizzato, cioè non è visto nel complesso della sua esistenza come persona.

È chiaro che il lavoro è necessario a ciascuno di noi per poter sopravvivere, ma è altrettanto innegabile che esso abbia conseguenze sulla persona, sulla famiglia, sui rapporti, sulla serenità personale ecc. Attraverso la propria opera una persona inoltre si sente protagonista dello sviluppo della società, si sente di collaborare al bene terreno della comunità umana ed è questo che deve essere alla base delle politiche sul lavoro e non il concetto che vada bene qualunque cosa al fine di garantire un salario.

Nella pratica invece, ciò che i politici oggi ci propongono è un modello molto differente, cioè un modello piegato e voluto dallo strapotere della finanza a livello politico e del denaro a livello culturale.
Siamo stati, ad esempio, investiti da migliaia di discorsi tesi a dimostrare che la flessibilità del lavoro fosse l’unica soluzione possibile ed auspicabile per permettere ad ognuno di conservare il proprio impiego, in realtà la richiesta che la flessibilità impone a ciascuno di noi è solamente quella di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza, della propria famiglia e dei propri rapporti modellandola sulla necessità di produzione dell’azienda. In pratica una forma di schiavitù remunerata.

Il concetto che in periodo di crisi non bisogna lamentarsi, ma solo essere contenti di avere ancora un lavoro ed accettare ogni sacrificio per poterlo conservare è in sé profondamente sbagliato: prende un unico bisogno della persona (la necessità di un salario) e lo assolutizza. Riduce cioè l’umanità del lavoratore a quell’unico bisogno, negandogli in un certo senso la dignità di uomo che ha in se stesso un desiderio di felicità e realizzazione che insegue anche, ma non solo, attraverso il proprio impiego.

Nessuno si è mai sognato però di dire al proprietario di un’azienda che invece di licenziare la metà dei propri dipendenti per poter mantenere lo stesso profitto, in periodo di crisi deve accettare di guadagnare meno ed essere contento di avere ancora un’azienda. Questo perché, e lo si riscontra facilmente in molte affermazioni dei nostri politici, l’apparato produttivo non è visto come un prodotto collettivo tra Stato, lavoratori ed azienda messi tutti sullo stesso piano, ma prevalendo anche in questo caso il concetto che il lavoro è la sola produzione di ricchezza, l’azienda ha il diritto in un certo senso di regnare sul lavoratore.

È necessario dunque rifondare il concetto stesso di lavoro, ridare valore al lavoro inserito nella complessità dell’esistenza di ciascuno ed impostare su questo strategie e politiche a lungo termine, perché in fondo a cosa serve lavorare e accumulare una grande ricchezza, perdendo però in questo la bellezza dell’esistenza?

Reggio Emilia, Piazza Prampolini, 10 febbraio 2018, ore 18.45

 

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