Del burkini come erotizzante

di Aldo Giobbio

L’estate, si sa, è sempre stato un periodo magro per i mass media. Anche quella del 2016 non sapeva presentare altro che guerra, terrorismo, crisi economica e altre banalità del genere, che ormai non facevano più notizia. Ma la provvidenza di coloro che di mass media vivono (alludo ai politici più che ai giornalisti) ci ha dato il burkini, ossia l’abito da spiaggia per le donne musulmane. Lo scandalo è stato ovviamente suscitato non dal fatto che tale abbigliamento non lasci scoperto quasi nessun centimetro di pelle, ma dal fatto che ciò avvenga sulle spiagge, dove vige il costume contrario. Si offende l’usanza – o meglio il costume, in tutti i sensi del termine – non il pudore. I custodi dell’ortodossia occidentale che hanno fatto tanto schiamazzo, in particolare denunciando l’uso del burkini come una delle tante manifestazioni di un’ideologia che ha fra i suoi cardini l’umiliazione della donna, hanno, a quanto pare, trascurato i nostri precedenti. Personalmente non riesco a capire come una donna – una persona in generale – possa stare in spiaggia e soprattutto entrare in acqua conciata in quel modo, ma in definitiva sono fatti suoi. Come storico non posso fare a meno di rammentare che cent’anni fa il costume delle donne europee non era poi tanto diverso (credo che le calze siano state abolite solo dopo il 1919). Anzi, mezzo secolo prima, quando la medicina aveva incominciato a consigliare il mare per scopi salutistici, nella prime spiagge divenute alla moda, come Ostenda e il Lido di Venezia, le signore entravano in acqua addirittura all’interno di apposite cabine costruite in modo da consentire all’acqua di entrare ma con pareti che impedivano la vista di chi ci stava dentro. È vero che anche in Occidente, a quei tempi, la condizione della donna non era invidiabile nemmeno nel retroterra; questo, però, non impediva alle femministe di lottare per il diritto di voto e ai socialisti, compresa Anna Kulisciof, che vestiva in modo molto castigato, di associare l’emancipazione della donna a quella della classe operaia. È vero che una certa disinvoltura nell’abbigliamento è poi andata di pari passo con le conquiste politiche, ma il rapporto non è poi così diretto.

In realtà l’abbigliamento, in spiaggia o in qualsiasi altro posto, non ha mai avuto il compito di scoraggiare le pulsioni sessuali ma semmai quello di stimolarle o indirizzarle nel senso voluto da chi conduceva il gioco. I re (quando contavano qualcosa) non hanno mai esibito i loro pettorali e i loro bicipiti, e non soltanto per non farli vedere se erano un po’ scarsi. I loro abiti dovevano servire ad esibire il loro rango e la loro ricchezza. Questo valeva sia per gli uomini sia per le donne. “Il re è nudo” non era una manifestazione di erotismo ma di disprezzo. Nel caso delle donne, in particolare, la quantità di roba che una signora si metteva addosso era proporzionale al rango che occupava o al quale aspirava, e per loro questo fatto acquistava anche una valenza erotica a causa del compiti complessi e anche molto lontani dall’erotismo che la civiltà ha via via assegnato all’incontro tra i sessi. Il diritto romano assegnava al matrimonio tre scopi: remedium concupiscientiae, procreazione ed educazione dei figli, mutuum adiutorium (aiuto reciproco). Chissà perché (a meno che non fosse implicito nel concetto di aiuto reciproco) non considerava un quarto caso: quello del matrimonio per così dire dinastico, che ovviamente non c’è stato solo per i re ma si è verificato ogni volta che il legame è servito a modificare la condizione sociale di almeno uno dei due o a stabilire rapporti tra famiglie o comunque a favorire gli interessi delle parti. Il professor Unrat (nel racconto originario di Heinrich Mann, non nella versione alquanto edulcorata e moralistica del film L’angelo azzurro, per altro bellissimo, di Josef von Sternberg) sposa Lola non tanto per soddisfare irrefrenabili bisogni erotici ma perché gli serve una padrona di casa abbastanza attraente e spregiudicata per portargli in casa i gonzi che lui poi deruba con la sua bisca clandestina (nel racconto il vero mascalzone è lui, non Lola, che è solo una ragazzotta un po’ leggera). Nel contesto della civiltà occidentale non contano tanto i centimetri di pelle che vengono mostrati (fossero pure quelli delle gambe di Marlene Dietrich) ma piuttosto quelli che vengono coperti. Anatole France, in un episodio dell’Isola dei pinguini, racconta dei pinguini, che erano stati trasformati in esseri umani ma conservavano la mentalità e le pulsioni naturali dei pinguini, che stavano insieme maschi e femmine, tutti nudi, con la massima indifferenza, finché al diavolo viene l’idea di buttare addosso ad una pinguina uno straccetto qualsiasi. Immediatamente le saltano addosso. L’abate Galiani, che nel XVIII secolo attribuiva alle donne, quale unica chance di sopravvivenza sociale, la capacità di attirare l’attenzione degli uomini, indicava la fonte del loro fascino non nella scollatura ma nei gioielli con i quali la potevano adornare. Oggi, il fatto che legioni di donne europee circolino quasi nude non ha contribuito a renderle più attraenti; anzi ha sviluppato un meccanismo di assuefazione nel quale alcuni vedono addirittura una delle cause di incremento dell’omosessualità, mentre – almeno a giudicare da una telefonata che giorni fa è arrivata a Prima pagina – anche da noi c’è già qualcuno che scopre il carattere erotizzante del burkini.

Nella civiltà gli impulsi erotici stanno nel cervello, non nei genitali. In un romanzo cinese ho letto che ancora ai primi del XX secolo in Cina le orrende deformazioni dei piedi esercitavano un tremendo effetto erotizzante, quando in un europeo avrebbero suscitato solo ripugnanza o eventualmente – se si fosse trattato di una persona sensibile – pietà per la donna e indignazione verso una società che promuoveva simili atrocità. Tutto sta nel messaggio che si intende veicolare. Personalmente non mi sembra che il messaggio che il burka e il burkini tendono a veicolare sia del tutto positivo. Però, temo che certe reazioni, evidentemente esagerate, al fatto che alcune persone indossino il burkini in spiaggia siano ispirate non tanto, come proclamato, da ipersensibilità verso valori di per sé positivi come quelli della liberazione sessuale ma piuttosto dal ravvisarvi un’offesa al conformismo. In questo caso il discorso si allarga. La repressione sessuale non è una bella cosa ma la repressione mentale è anche peggio. Sull’erotismo si può discutere. Sul pensiero unico, no. Un po’ di pudore, suvvia! (a.g.)

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