Non so quanti di voi conoscano ‘a Mappata, un poemetto di Salvatore Di Giacomo. Io l’ho sentita leggere un paio di volte, la prima da Eduardo De Filippo, la seconda da Massimo Ranieri, e l’ho trovata un’esperienza estetica di prim’ordine. Contiene anche un messaggio interessante, in un certo senso il programma di lotta alla povertà più deciso fra quanti me ne siano capitati. La storia, in due parole, è questa. La mattina di Pasqua del 1900 il Padre Eterno, in compagnia di San Pietro, decide di fare un giro turistico per Napoli. La città, nel complesso, gli piace; però il suo spirito è gravemente turbato dalla vista di una miriade di poveri. Così fa segno ad un drappello di angeli, che prendono per i quattro angoli una grande tovaglia, ci caricano sopra tutti i poveri e li portano in cielo, dove trovano un banchetto magnifico, il cui ultimo boccone è però letale (un po’ come accadde alla cagnetta Laika, il primo mammifero superiore che sia andato in orbita). Si salva solo una pezzente (mi scuso, ma è il termine usato da Di Giacomo) che deve tornare sulla terra per allattare il suo piccolino. Non si parla di eutanasia, ma il Padre Eterno è molto compiaciuto della sua idea, grazie alla quale tutta quella gente «dopo un’ora felice che ha passato / è trapassata nell’eternità». Chi conosce la “modesta proposta” del rev. Jonathan Swift noterà un paio di differenze non trascurabili. La prima è un certo rispetto per i neonati; la seconda che qui i poveri, prima di essere ammazzati, ricevono almeno un ultimo pasto, mentre per Swift sono loro che devono essere mangiati, e per di più finché sono ancora piccoli e teneri. C’è però un filo conduttore che lega i due testi, ossia che i poveri sono sopportabili – e a volte persino utili – solo da morti. Ci sarebbe anche un’altra differenza, il cui apprezzamento lascio al lettore: il testo di Swift è satirico, ma l’altro? Volendo, ci potrebbe essere un’interpretazione “di sinistra” – che quando la Direzione ti tratta troppo bene c’è sempre sotto qualcosa (vedi la crisi attuale dopo qualche anno di boom drogato) – ma non credo fosse nelle intenzioni del poeta.
Veniamo ora a San Guniforto, che dà il titolo a queste note. Guniforto (Guinefort, probabilmente da un originale tedesco Wynforth) è una replica di Sebastiano. Anche lui è un soldato, anche lui viene martirizzato con le frecce, alle quali al momento sopravvive, ma per poco. Tutti e due sono taumaturgi. Fin dall’antichità (vedi l’Iliade) le frecce sono la metafora delle epidemie e il santo che ne viene colpito per antitesi diventa il protettore. Però Guniforto – il cui culto ebbe un’estensione straordinaria, da Pavia fino a Le Havre – ha una caratteristica: gli si chiede la fine della malattia, non necessariamente la guarigione. “San Guniforto / o vivo o morto” – e il santo deve decidere in tempi brevi (di solito tre giorni). A chi ne volesse sapere di più consiglio la lettura di Jean-Claude Schmitt, Il santo levriero, Einaudi, 1982 (in particolare la parte III, p. 125 e segg.). La lezione è evidente: la vera disgrazia, per una famiglia o una comunità, non è avere un morto, ma trovarsi con un invalido permanente a carico. Si dice che nelle guerre che gli stati dell’Africa decolonizzata si sono fatti fra di loro o al loro interno, sia stato fatto larghissimo uso di mine antiuomo, in particolare contro la popolazione civile, ma la loro potenza era calcolata in modo che di solito non uccidevano ma si limitavano a maciullare un piede o troncare una gamba, nella supposizione, appunto, che un morto si piange ma poi si dimentica, mentre un invalido, specialmente se è un ragazzino, pesa per anni sulla sua famiglia e il suo villaggio.
Queste storie terribili vengono in mente quando i cosiddetti mercati (una forma particolarmente sofisticata di bombe antiuomo) reagiscono male alla vittoria di un presidente nel cui programma c’è un miglioramento dell’assistenza sanitaria – o quando un governo (di un altro paese) decide di limitare l’assistenza ai malati affetti da morbi invalidanti e non guaribili. Più in generale, far arrivare l’anziano alla fine della sua età lavorativa in condizioni relativamente buone e continuare ad assicurargli l’assistenza sanitaria anche quando non è più un soggetto attivo incide sul bilancio in due modi: per il suo costo diretto e perché, prolungandone la vita, accresce il tempo nel quale rimane a carico. Al contrario, sfruttarlo fino all’osso ha anche l’effetto di accorciargli la vita. Quindi, non solo incomincia a pesare più tardi, ma anche si toglie di mezzo prima. Sotto questo profilo, non c’è dubbio che la morte aiuta a pareggiare i conti. Non per nulla Totò, napoletano insigne, la chiamava «‘a livella».
Bellissimo! Grazie.