Generazione senza nome

L’esperimento, ormai superato, della laurea triennale ha prodotto una generazione ufficialmente senza qualifiche sufficienti per inserirsi nel mondo del lavoro. Ideata per diminuire il numero degli studenti “fuori corso” rispetto alla media europea, questa laurea non ha affrontato il problema formativo ed educativo creando così una nuova ondata di giovani senza prospettive lavorative. Davanti a questo orizzonte, sempre più ragazzi rinunciano alla loro formazione, culturale, umana e propulsiva fin dal termine della scuola dell’obbligo.

Assistiamo impotenti, da anni, alle decisioni dei governi di drogare ulteriormente un sistema bancario malato e disumano. Cosa sarebbe successo se quei fondi fossero stati utilizzati per investire su capitale umano? Impresa giovanile? Per creare occupazione?
Il mondo del lavoro giovanile è, quando presente, precariato. Contratti a tempo determinato, alcuni brevi, altri brevissimi che lasciano nell’incertezza economica e di sviluppo della persona. Quando l’azienda si trova per legge obbligata a terminare il contratto a tempo determinato, il giovane viene licenziato, i mesi di crescita e lavoro comune cancellati per ripescare nel mercato dei contratti evanescenti.

Diversi politici hanno definito questa generazione “mammona” e “bambocciona”.

Ma come sperare nell’indipendenza economica quando manca lavoro, i prestiti sono vietati e gli affitti da pagare?

Investire nell’istruzione e nel lavoro, tagliando spese folli (spese militari,burocratiche, tangenti, eccetera) che questo Stato e i suoi cittadini non possono permettersi. Il peso economico e sociale di uomini e donne disoccupati è maggiore rispetto agli investimenti necessari per far ripartire un paese vecchio di idee e classe dirigente.

“Ci inventeremo qualcosa” vaneggia il Presidente del Consiglio parlando di sviluppo. Non c’è da inventare! C’è da valorizzare, cioè investire sul capitale umano di cui questo Paese dispone. Il recente “decreto sviluppo” è pensato a tavolino per i grandi finanzieri. Chiediamo che gli investimenti vengano fatti per favorire imprenditoria e occupazione non nell’ “alta finanza” senza fondamenta reali. Calmierare gli affitti degli stabili, defiscalizzare la spesa per le macchine da lavoro, dare credito a ricercatori e “cervelli” troppo spesso costretti a fuggire altrove.

Soprattutto chiediamo che il lavoro torni ad essere un diritto e non un ricatto.

Questa eterna crisi non verrà certo risolta da chi l’ha creata smantellando quanto di buono l’Assemblea Costituente aveva sancito dopo la catastrofe della dittatura fascista e del dramma bellico.

Pane Pace Lavoro 5 novembre 2011