di Aldo Giobbio
Fra le ultime idee venute in circolazione in questi anni c’è quella, per la verità non nuovissima ma poi un po’ occultata, che la contraddizione di fondo sia oggi non tra le classi, le razze, le religioni o che altro ma più semplicemente tra le élites e le masse popolari. Nella sua forma più primitiva tale contraddizione equivale a quella tra chi comanda e chi subisce, uno schema ben noto nella storia ma un po’ tautologico se non si cerca di capire perché alcuni comandano e altri subiscono. Un modo un po’ più raffinato per esprimere lo stesso concetto sarebbe la distinzione tra insiders e outsiders ossia tra chi è nel cerchio magico e chi non lo è. Un‘impostazione del genere è piuttosto utile in sede storiografica per spiegare fenomeni di sovversione dell’esistente che, almeno nelle intenzioni e nella fase iniziale, non sono necessariamente la presa del Palazzo d’Inverno ma solo un tentativo per trovarci un posto accanto al fuoco. Per esempio, Alexis de Tocqueville, parlando della Rivoluzione Francese, dice che il Terzo Stato era solo una porzione dell’aristocrazia che si considerava messa in disparte e che professava un’utopia generale sui diritti dell’uomo solo per rivendicare in un senso molto più ristretto quelli che riteneva fossero diritti suoi. Poi, come noto, le cose andarono molto più in là, ma questa, si sa, è l’eterogenesi dei fini. Resta comunque il problema di spiegare in sede politologica perché di certe situazioni, in certi momenti, si ritiene che abbiano il tocco magico del potere e altre no. Per esempio Marx riteneva che nella lotta per il potere fosse strategico il possesso dei mezzi di produzione. Oggi altri ritengono che il controllo del mezzi di comunicazione sia più importante. Tutto questo si può discutere. Resta comunque il fatto che nell’opinione comune una élite è qualcuno che possiede qualcosa che gli altri non hanno. Che poi ne abbia diritto è ovviamente un altro paio di maniche; però l’opinione relativa all’esistenza o no di tale diritto è ciò che legittima o no la presenza dell’élite e, soprattutto, la sua azione.
Ma che cosa è una élite? Qualcuno che comanda su altri o almeno li influenza in modo sostanziale, direttamente o indirettamente. OK. Ma come e in virtù di che cosa? Le fattispecie possono essere diverse ma un requisito essenziale è che la loro validità sia in qualche modo riconosciuta, magari obtorto collo, ma ci deve essere; nessuno si spaventa davanti a un’arma scarica. Illustrando il suo concetto di egemonia, Gramsci mette bene in chiaro che non si tratta di pura violenza: bisogna che ci sia almeno un minimo di consenso. Ottenuto con l’inganno? Celando la vera natura di quel potere? Anche questo è un altro paio di maniche. In ogni caso, anche se l’arma non è carica, chi se la vede puntata addosso o si sente dire che serve a difenderlo deve credere che lo sia. In generale al potere si perdonano molte cose, anche imperdonabili, ma non l’impotenza. In un modo o nell’altro l’élite è sempre carismatica. Quando l’élite del potere era composta di guerrieri che avevano il monopolio della forza non capitava che fosse contestata. Le cose si complicarono leggermente quando la necessità operativa di porre in essere formazioni militari più grandi pose il problema dell’organizzazione del consenso, sia di chi prestava servizio personalmente sia di chi era chiamato a pagarne i costi. Questo obbligò i guerrieri a cooptare nell’élite anche poeti, sacerdoti, sicofanti etc., insomma soggetti che nell’organizzazione del consenso erano più bravi di loro ed erano disposti a collaborare. La sofisticazione dei mezzi obbligò a cooptare anche i responsabili della produzione materiale, perché non è sempre vero, con buona pace di de Gaulle, che l’intendence suit. Qualche volta ha bisogno di incentivi. In ogni modo, anche se queste esigenze hanno avuto come conseguenza l’allargamento delle élites, il funzionamento del sistema non ha avuto grossi intoppi finché l’élite è rimasta relativamente omogenea e tutto sommato ristretta rispetto alla massa dei governati, e questi hanno avuto nei suoi confronti un rispetto basato sulla convinzione che il suo potere fosse giustificato da investitura divina, sapienza iniziatica, poteri occulti, capacità sovrumane e, insomma, qualità superiori a quelle dei comuni mortali (“Loro sanno. Per questo sono i capi” riflette l’Agnese prima di andare a morire).
Gli intoppi arrivano quando l’ampliamento delle competenze necessarie, le discussioni tra i loro cultori, il carattere sempre più opinabile delle soluzioni proposte (o peggio imposte) intaccano sempre più gravemente la fede nella superiorità sapienziale delle élites. Il problema non è nato oggi e l’istanza democratica prima della Rivoluzione Francese è nata non tanto dal bisogno astratto di conferire una omologazione istituzionale ai membri del governo ma dalla constatazione che tra i comuni cittadini ce n’erano parecchi – medici, avvocati, imprenditori – che su molte cose ne sapevano più di loro. Attenti, però: l’uomo di governo non deve essere uno specialista, anche se, per svolgere bene il suo lavoro, deve essere affiancato da specialisti. A lui si chiedono capacità di giudizio complessivo, di sintesi, di mediazione, di scelta e di guida (la parola greca kybernetes, dalla quale deriva “governo”, significa “timoniere”); insomma deve essere un geneneralista e, per la scelta e l’utilizzo ottimale dei collaboratori, un peritus peritorum.
La tendenza alla frammentazione dei saperi e dei conseguenti metodi di lavoro ha certamente provocato gravi danni all’opera e, di conseguenza, al prestigio delle élites. Ancora più gravi sono le conseguenze che essa ha avuto sul rapporto tra governo e governati. La maggior parte delle università sta evolvendo verso una specie di scuola tecnica superiore, salvo qualche centro di eccellenza che però è di fatto riservato quasi solo a soggetti che per altri motivi sarebbero comunque già inclusi nel cerchio magico. Questi centri di eccellenza fanno un lavoro positivo nel senso che giovano al livello intellettuale delle élites che di essi si servono ed è probabile che al momento siano ancora l’ultimo baluardo – come sembra dimostrare la frequente invocazione ai cosiddetti “tecnici” – che si oppone allo sfacelo totale; però la loro collocazione tende più ad accentuare che a correggere la separazione dal resto della società. L’università ha in pratica cessato di essere quello che è stata negli ultimi due secoli, ossia il canale forse più importante per l’alimentazione e la rigenerazione dell’élite, e questo proprio in coincidenza con la scomparsa o almeno l’indebolimento strategico di altri corpi intermediari come i partiti e i sindacati o le organizzazioni religiose. In pratica sono ormai alcuni decenni che la nostra società si sta dividendo con un fossato sempre più largo tra una massa di amministrati sempre più frazionati e privati anche dei più elementari punti di riferimento e di aggregazione e un vertice sempre più isolato e perciò condannato all’autoreferenzialità (la cosiddetta “casta”) e in definitiva sempre meno capace di esercitare quell’azione di governo che sarebbe la sua giustificazione. Il càrisma è svanito, e con esso il consenso.
Che fare? Il ricorso, che alcuni a quanto pare invocano, all’unità del comando, in pratica eliminando (per forza o per sofismi) le opposizioni, è precisamente ciò che non bisogna fare. Al contrario, una qualche speranza di salvezza può nascere solo dall’estensione e dall’approfondimento del dibattito, dall’eliminazione del fossato, dal coinvolgimento degli esclusi, che, per inciso, comporta uno sforzo sovrumano nell’istruzione. È anche probabile che tutto ciò non si possa nemmeno intraprendere se non accompagnato da una coraggiosa e radicale revisione della filosofia socio-politica ora prevalente. Questo è il momento per decidere se vogliamo una servitù volontaria o una verità che ci renda liberi. Allons, enfants! (a.g.)
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