Grazia e giustizia

 

 

Il dibattito (se è lecito usare questo nobile termine) intorno alla grazia a Silvio Berlusconi si è – per così dire – arricchito di arzigogoli intorno all’ineccepibile risposta del capo dello Stato. Si potrebbero dire molte cose, ma una sembra fondamentale. Il Presidente non può nemmeno prendere in considerazione una simile eventualità, perché l’interessato non lo chiede. E Berlusconi fa benissimo a non chiederlo, dal suo punto di vista, perché grazia significa perdono, e per chiedere perdono bisogna che ci si riconosca colpevoli e pentiti. Adriano Sofri non chiese la grazia (che avrebbe facilmente ottenuto) perché continuò a proclamarsi innocente e meno che mai pentito di ciò che, secondo lui, non aveva fatto. E aveva davanti vent’anni di carcere. Perché dovrebbe cedere Berlusconi, che rischia un anno di arresti domiciliari in una delle sue più che confortevoli abitazioni? Nonsenso. Infatti, nemmeno i sostenitori della grazia glielo chiedono. Quello che loro vorrebbero sarebbe un atto sovrano, spontaneo, del Presidente. E perché mai? Anche a prescindere dalle difficoltà legali, qual è il “summum bonum” che giustificherebbe un atto così discutibile e pericoloso sotto il profilo dell’ordine pubblico? Si ritorna alle solite argomentazioni: il notevole seguito elettorale della persona coinvolta, i servigi (quali?) resi al paese in vent’anni di vita politica, il sospetto (che per l’interessato è certezza) che vi sia persecuzione e non giustizia, e così via. In realtà, la vera tesi che sta sullo sfondo – e che per alcuni commentatori non è nemmeno tanto dissimulata – è che una posizione politica eminente renda chi la possiede “legibus solutus”.  La legge è uguale per tutti, salvo che per alcuni (non vi ricorda “La fattoria degli animali”?). Ma insomma, che cosa avrebbe quest’uomo per rendersi degno, come Napoleone, “d’inestinguibil odio e d’indomato amor”? Un’occhiata al contemporaneo dibattito sulla successione dinastica può forse aiutare a comprendere.

 

Dalle dichiarazioni che si sono sentite in questi giorni, sembrerebbe che almeno alcuni degli amici di Berlusconi si potrebbero anche rassegnare ad una sua uscita di scena a patto che al suo posto subentrasse la figlia Marina. Non conosco questa signora, e per quello che ne so potrebbe anche essere un genio politico. Anzi, per il bene della patria, me lo auguro. Mi sembra tuttavia che questa sia l’ultima preoccupazione dei sostenitori di questa soluzione. È del tutto evidente che quello che loro importa è mantenere il nome in ditta, magari anche con la speranza che, dietro le quinte, il socio fondatore continui a comandare per interposta persona. Devozione dinastica? Nella storia d’Europa c’è stato anche un sentimento del genere, ma credo sia finito intorno al 1830. Oggi come oggi, ritengo piuttosto che questo atteggiamento derivi dalla convinzione che Forza Italia, Pdl o come diavolo lo si voglia chiamare sia stato soprattutto un partito personale, destinato a sfaldarsi (come del resto si era già visto un paio d’anni fa, quando sembrava che Berlusconi fosse disposto a farsi indietro) non appena resti privo del suo eroe eponimo. Di qui la necessità di mantenere in vita almeno il nome, una parvenza di continuità e magari anche un po’ di soldi e una certa potenza mediatica. Naturalmente anche questo viene giustificato con il dovere patrio di mantenere un punto di riferimento alla notevole massa di cittadini che a suo tempo si raccolsero intorno al grido “meno male che Silvio c’è” e ora, senza Silvio – o qualcuno legalmente autorizzato a farne le veci – non saprebbero dove sbattere la testa. Perché, come tutti sappiamo, il paese ha comunque bisogno di una destra e – se questa non è capace di quagliarsi da sola – l’amor di patria impone di trovare un qualche uomo della provvidenza che sia capace di farlo. E perché poi? Personalmente sono incline ad un certo equilibrio nel panorama politico, ma nel momento attuale, visto lo stato della cosiddetta sinistra, non mi sembra che la necessità di una destra che le faccia da contrappeso sia poi così urgente.  Non discuto, naturalmente, il diritto di pensarla diversamente, ma soprattutto non mi sembra il caso. Non ci troviamo di fronte ad un movimento popolare che cerca di diventare partito (come forse è stato nel 1994) ma ad un partito – o meglio un gruppo di potere necessariamente passato al professionismo dopo vent’anni nei quali non ha avuto altro da fare – che si sente mancare il terreno sotto i piedi, perché gli sfuggono il consenso elettorale, le risorse economiche e mediatiche e ora anche l’unica persona significativa che avesse. Con l’aggravante, rispetto al 1994, che ora c’è Grillo, che allora non c’era. Si può fare fortuna, in una democrazia rappresentativa, ma bisogna rappresentare qualcosa, o almeno darne l’impressione. Ma loro che cosa rappresentano? (a.g.)

 

di Aldo Giobbio

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