I limiti del non sviluppo

puebloSecondo gli ultimi dati, il Pil dell’Italia nel primo trimestre del 2013 è sceso di un altro 0,50 per cento, e siamo al settimo trimestre di calo consecutivo. Questo fatto, insieme ai soliti anatemi contro la politica detta di austerità (il termine austerity risale alla Gran Bretagna del dopoguerra, e nessuno ha mai detto che la politica praticata allora da Attlee e Stafford Cripps sia stata rovinosa per quel paese), ha rilanciato anche il discorso sulla “decrescita” che ormai portano avanti in parecchi, con il loro uomo di punta in Serge Latouche. Io sono abbastanza vecchio da aver fatto a tempo a conoscere Aurelio Peccei, che nel 1968 fu non proprio il primo a toccare tale argomento (c’era stato qualcuno, come Bertrand de Jouvenel, già negli anni ’50) ma certamente fu il primo a portarlo fortemente alla ribalta, con il suo libro The Chasm Ahead (ed. it. Verso l’abisso) e poi con il contributo che diede alla fondazione del Club di Roma. Nel 1972 uscì il ben noto rapporto Meadows, The Limits to Growth (I limiti dello sviluppo). I meno giovani ricorderanno che fu accolto malissimo e che solo pochissimi uomini politici in vista (in particolare il cancelliere austriaco Bruno Kreiski, l’olandese Sicco Mansholt e l’italiano Altiero Spinelli – l’uno e l’altro commissari della comunità europea, con i quali ebbi interviste molto interessanti) intervennero seriamente (Spinelli organizzò anche un incontro di studio a Venezia).
Oggi si sta diffondendo il termine “frugalità”, che certamente suona meno minaccioso di “decrescita” (la frugalità è una virtù). Io, naturalmente, sono favorevole; però non posso fare a meno di rammentare che le obiezioni – quelle serie – che si possono fare oggi non sono poi tanto diverse da quelle che si facevano quarant’anni fa. Allora la destra era platealmente contraria, in nome degli interessi che sarebbero stati colpiti, ma anche la sinistra era abbastanza perplessa. In sostanza, percepiva che il relativo benessere di quella che allora si chiamava ancora la classe lavoratrice era in definitiva marginale e quindi sarebbe stato il primo ad essere colpito da una restrizione generale dei consumi. In estrema sintesi, il nostro sistema economico era come un sistema di vasi solo parzialmente comunicanti, con l’acqua a diversi livelli, e i canali di comunicazione disposti in modo che un calo anche limitato ai livelli più alti avrebbe provocato la siccità totale ai livelli inferiori. Queste discussioni furono poi troncate dalla crisi petrolifera del 1973, che diffuse il terrore della recessione e in definitiva fu poi combattuta con l’inflazione. Altre voci, altre stanze.
Oggi, almeno, non abbiamo gli anni di piombo (per quanto ci siano alcuni sintomi abbastanza sinistri). In sostanza, tuttavia, rimane il problema dei dislivelli. Un’eventuale politica di relativa decrescita – o frugalità, se preferite chiamarla così – deve essere selettiva, altrimenti la parte già depressa del paese finisce nella desolazione. Ma chi si trova nella condizione di poter fare certe scelte? “Selezione” significa spostare risorse da un settore ad altri. Alcuni spostamenti ci sono interdetti, a livello nazionale, dai nostri impegni internazionali e, al livello europeo al quale certe decisioni potrebbero essere prese (e sarebbe molto opportuno che lo fossero), da veti incrociati politici e – soprattutto – da pregiudizi ideologici – per esempio il mito della concorrenza. Ma ci sono anche altri ostacoli, forse ancora più radicali. In particolare, è estremamente probabile che una politica del genere andrebbe in rotta di collisione con l’opinione diffusa che occorra diminuire le risorse dello Stato e accrescere quelle dei privati. In realtà finirebbe con l’essere tutto il contrario. Prendiamo, per esempio, la difesa del territorio, un’attività della quale le recenti catastrofi hanno dimostrato – se ancora fosse stato necessario – l’assoluta improrogabilità, e che inoltre avrebbe certamente risultati positivi sull’occupazione. Si tratta di investimenti a produttività differita, alla maggior parte dei quali dovrebbe sopperire il settore pubblico. Si potrebbero reperire le risorse necessarie tagliando altre spese? È assai dubbio. A parte la doverosa lotta contro gli sprechi (siano essi dovuti ad insipienza, manovre politiche, interesse privato in atti d’ufficio o ingerenza della malavita) non si può pensare di diminuire le prestazioni del servizio sanitario o dell’istruzione, a meno di non voler mandare all’aria la solidarietà nazionale e il futuro del paese. Può darsi che, allo stato attuale delle relazioni internazionali, le nostre forze armate non abbiano bisogno proprio dell’ultimo e più sofisticato tipo di aereo, ma si tratta di una materia molto delicata. La difesa della patria è sacro dovere di ogni cittadino. D’altra parte, come italiano non alieno da un certo interesse per la storia, non posso dimenticare i nostri connazionali che in altri tempi vennero mandati nell’inverno russo con scarpe di cartone. Vorrei anche osservare (come fa André Malraux ne l’Espoir, parlando del golpe franchista del 1936) che per la guerra civile non sono poi indispensabili gli ultimi modelli di armi. Queste cose vanno esaminate a mente fredda.
Per questi motivi dubito che si potrebbe ipotizzare una diminuzione dell’imposizione fiscale, considerata anche l’impossibilità di estendere l’indebitamento (il cui servizio, fra l’altro, costituisce anche un vincolo molto importante che pesa sul pubblico bilancio). Se quindi pensiamo alla frugalità come ad una diminuzione dei consumi “superflui”, non c’è dubbio che tale contrazione riguarderebbe soprattutto i consumi privati – in particolare quelli più popolari o comunque più diffusi nella parte più debole della popolazione (come si usa dire, meno telefonini, meno benzina, meno serate in pizzeria) – e che essa ricadrebbe sull’occupazione e di conseguenza anche sulla spesa per ammortizzatori sociali, se non vogliamo che la frugalità diventi fame. Certo, ricadrebbe di meno sui consumi delle classi alte. Già ora è stato notato che sono crollate le vendite delle utilitarie ma non quelle dei SUV. Bisogna per altro dire che, allo stato delle leggi, non sarebbe praticamente possibile ad alcun governo di introdurre alcuna forma di razionamento relativo a certi consumi piuttosto che ad altri (come almeno poteva fare Stafford Cripps nel 1945). Il solo modo, oggi, per fare in modo che le persone consumino di meno, è di lasciargli meno soldi in tasca – il che porta acqua al mulino dei fautori di un appesantimento dell’imposizione. Anche la disoccupazione, in fondo può aiutare, il che significa che a parole sono tutti contro, ma chissà se tutti sono sinceri (altro si dice in piazza ed altro in palazzo). Si può distribuire meglio l’imposizione? Si deve. Ma come? In generale, se i ricchi riescono, in proporzione, a pagare meno dei poveri, è perché hanno migliori possibilità di difendersi, dai privilegi dei nobili dell’Ancien Régime al too big too fail delle grandi banche di oggi. Però l’evidente difficoltà di costruire condizioni non solo più umane ma anche più salutari non giustifica la predicazione di chi non vede altra strada che stampare biglietti e per il resto lasciare che tutto vada come vada. Navigare di bolina stretta non è la stessa cosa che mettersi alla cappa. (a.g.)

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