di Aldo Giobbio
Bruce Chatwin, nel suo racconto Il viceré di Ouidah, narra la storia di un tale, personaggio realmente esistito, che aveva fatto un mucchio di soldi con la tratta degli schiavi e perse tutto da un giorno all’altro quando la regina del posto che gli serviva da base lo convocò e gli spiegò di aver stipulato con il governo inglese un patto di amicizia che, fra l’altro, comportava il versamento a suo favore di duemila sterline l’anno. “Vede – gli disse – Lei sa che la maggior parte dei neri che le vendiamo sono prigionieri di guerra, che le nostre leggi e i nostri santi costumi ci imporrebbero di uccidere. In questi anni non lo abbiamo fatto, perché avevamo bisogno di soldi. Ora, però, che la generosità del governo inglese ci libera da tale necessità, sarebbe un sacrilegio imperdonabile se continuassimo con tale prassi. Perciò, se ha bisogno di merce, la cerchi da qualche altra parte”. La storia non dice quali siano state le reazioni dei prigionieri, però l’insieme degli avvenimenti che, in un debito lasso di tempo, portarono alla fine della tratta è intessuto di situazioni particolari che, in un primo momento, non risultarono particolarmente favorevoli a coloro per il bene dei quali si pensava di agire. Legalmente, l’abolizione della tratta fu discussa dalle potenze riunite nel Congresso di Vienna (1814-1815) e, fra gli stati consenzienti, almeno uno – la Gran Bretagna – sembrò disposto a prendere sul serio gli impegni relativi. Per i comandanti delle navi negriere era prevista anche la pena di morte. Però bisognava che non ci fossero dubbi sul carico: in pratica, che i neri fossero trovati a bordo. Così, quando un negriero si trovava preso in caccia, prima di essere raggiunto e abbordato li gettava in mare.
Questa storia è orribile. Però la perdita del capitale investito finì per avere un effetto positivo sulla fine della schiavitù, perché agì come un potente disincentivo per trafficanti e armatori e anche dal lato della domanda modificò le condizioni del mercato, facendo salire i prezzi e quindi scoraggiando gli acquisti. Fra quello che accadeva allora e quello che accade oggi con la cosiddetta immigrazione clandestina ci sono alcune analogie ma anche una differenza sostanziale: gli esseri umani che stanno nei barconi sono passeggeri paganti, anzi, che hanno pagato in anticipo. Perciò, se finiscono in mare, loro ci rimettono la vita ma il negriero non ci rimette niente. Fra i traffici attuali quello che assomiglia di più alla tratta è il commercio delle ragazze destinate alla prostituzione. Poiché si tratta di merce relativamente pregiata, della quale bisogna limitare al massimo non solo il rischio di morte ma anche l’eventuale deterioramento, il loro trasporto non avviene su mezzi precari e, ai due capi della filiera, venditore e compratore si conoscono, se non appartengono addirittura alla stessa organizzazione, e lo stesso vale per lo spedizioniere e il vettore. Non tutti sanno che, ai tempi d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti, country of freedom, in quel paese si trovavano anche schiavi bianchi, di ambo i sessi. Di solito si trattava di europei che in quel modo si erano pagati il viaggio e il loro impegno era a termine. Naturalmente, anche in tal caso l’interesse del committente era che arrivassero vivi, poiché era loro creditore. Non viaggiavano in prima classe, però nemmeno su navi negriere. Gli emigranti veri e propri, che il viaggio se lo erano pagato loro, se non avevano nessuno che li aspettasse, una volta toccata terra erano allo sbaraglio e offrivano “cheap la roba e cheap le braccia / indifferenti al tacito diniego” (così la racconta il Pascoli). Potevano morire per strada e nessuno avrebbe fatto una piega ma almeno non erano finiti in mare (di solito) perché il viaggio non era stato comodo ma le navi dovevano comunque essere abbastanza solide e ben guidate per poter reggere la traversata atlantica. La brevità del percorso e la totale indifferenza circa la sopravvivenza dei trasportati consentono oggi ai trafficanti di carne umana nel canale di Sicilia di utilizzare natanti privi dei più elementari requisiti di navigabilità e di evitare qualsiasi prestazione come marinai. Le probabilità di finire in mare sono per gli immigranti di oggi maggiori di quelle dei neri verso il 1830 e la loro speranza di vita è legata semplicemente alla possibilità che nei paraggi ci sia qualcuno che li ripeschi. La differenza a loro favore è che il Mediterraneo oggi è pieno di uomini coraggiosi – siano essi militari o civili – per i quali il dovere legale, l’imperativo morale e la ragion d’essere si saldano nell’impegno a cercare di trarne in salvo il più possibile (almeno finché ci riescono), cosicché il bagno tra le onde è diventato un’ordinaria modalità di sbarco.
Cose di questo genere, che succedono sotto i nostri occhi, imporrebbero almeno un minimo di riflessione seria, se al cosiddetto Occidente ne fosse rimasta la capacità, della quale per altro rivela una notevole carenza anche nelle sue questioni interne. Prima di tutto dovremmo renderci conto che quella con la quale siamo confrontati non è una normale migrazione ma qualcosa di molto più simile a quella che in tedesco si chiama Völkerwanderung e che a noi richiama l’idea delle cosiddette invasioni barbariche (non dimentichiamo che il Regno d’Italia fu fondato dai Longobardi, e non riguardava soltanto il Nord). Contestualmente dovremmo migliorare di molto la nostra conoscenza dell’Africa. Gli immigranti che provengono dall’Africa subsahariana affrontano, con molte probabilità di lasciarci la pelle, un viaggio due volte terribile: nella traversata del Sahara e in quella del canale di Sicilia. Viene da pensare che, per comportarsi così, debbano avere ragioni molto serie. La stessa distinzione, che molti da noi cercano di fare, tra rifugiati politici e migranti economici, sembra abbastanza futile. Gli operai di Parigi che nel giugno del 1848 andavano sulle barricate dicevano “mieux vaut mourir d’une balle / que d’expirer par la faim”. Gli immigranti di oggi fanno più o meno la stessa scelta, salvo che le loro barricate sono oggi il Sahara e il Mediterraneo.
Farebbero meglio a fare le barricate a casa loro? Questa è una domanda che si dovrebbero porre quelli che qui da noi vanno dicendo che non dobbiamo accogliere i fuggitivi ma “li dobbiamo aiutare a casa loro”. E come? Finanziando programmi di sviluppo e iniziative congiunte – che potrebbero anche non escludere ragionevoli assorbimenti di manodopera – quando non sappiamo nemmeno, il più delle volte, con chi potremmo trattare? Chi comanda veramente in Africa? I militari, le multinazionali, le mafie? O domani i cinesi? Per inciso, questi potrebbero anche non essere i peggiori interlocutori, dal momento che sono probabilmente interessati allo sviluppo nel medio e lungo termine di quella parte del mondo e non solo al suo sfruttamento immediato. Resta il fatto che oggi, nel mondo occidentale, si possono trovare operatori economici e magari qualche giornalista che hanno una certa dimestichezza con le capitali ma solo i missionari e i medici senza frontiere sanno come vivono gli abitanti della brousse africana e, senza tale conoscenza, non si può andare, nei casi migliori, al di là di accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano. Non è un esempio positivo il caso della Libia, perché, quando le autorità di una regione di transito si impegnano a limitare l’uscita ma non possiedono i mezzi necessari per regolare l’entrata, non c’è da meravigliarsi ipocritamente se i centri di raccolta ci mettono poco a trasformarsi in inferni molto simili ai Lager nazisti, senza nemmeno la sinistra efficienza delle SS.
Ovviamente, al di sopra di tutto aleggia una domanda alla quale di solito si gira attorno: chi è veramente interessato a frenare il flusso migratorio caotico? Evidentemente non i trafficanti di carne umana, il cui business ha ormai raggiunto dimensioni tali da poter esercitare una notevole influenza, probabilmente diversa a seconda dei tempi e dei luoghi ma della quale in ogni caso bisogna tener conto. Questa è materia criminale, certo. Però, anche dove le motivazioni sono meno spregevoli, ci sono interessi in gioco. Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca bloccò di punto in bianco la fuga dalla Germania Est con la costruzione del muro di Berlino. Però il suo governo aveva un evidente interesse ad impedire l’esodo. Oggi, per i governi africani alle prese con una pressione demografica senza precedenti, l’emigrazione è piuttosto un aiuto. Per i paesi occidentali il discorso è più complesso. Affermazioni come quella che abbiamo bisogno degli immigrati per salvare i conti dell’INPS (quando non possiamo prevedere quanti di loro potrebbero trovare un impiego regolare) sanno un po’ di umorismo macabro. Più in generale, i paesi dell’Unione Europea e in particolare l’Italia sono in presenza di un certo calo demografico, circostanza che potrebbe rendere benemerito un certo afflusso dall’esterno ma che dovrebbe essere studiata con molta cura, dal momento che abbiamo abbastanza inoccupati per autorizzarci a pensare che, almeno per ora, la carenza di manodopera non sia il nostro problema principale. Fra l’altro, incominciano a restare senza lavoro persino le colf e le badanti. Ovvio, se gli anziani devono spendere le loro pensioni per mantenere i nipoti disoccupati. Meglio, dice qualcuno; così, privi di assistenza domestica, moriranno prima, e ciò aiuterà i conti dell’INPS. Sì, però chi provvederà ai nipoti? L’economia non è una scienza, però non è nemmeno l’Opera dei Buffi. In realtà, quello che molti imprenditori vorrebbero non è tanto un afflusso generico di lavoratori ma un afflusso di lavoratori poco o niente qualificati da adibire ai lavori più umili e peggio retribuiti. Si tratta di un problema serio? Più che serio, non c’è dubbio. Ma riguarda più noi, che certi conti con la nostra struttura economica non li abbiamo mai fatti e, a quanto pare, continuiamo a non volerli fare. Abbiamo anche noi paura delle barricate? Sia. Però non pensiamo di essere sempre, per virtù divina, esentati da quel minimo di coraggio che, in copia molto maggiore e – direi – disumana, pretendiamo dagli africani. (a.g.)
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