Vogliamo oggi ricordare che il lavoro, nella sua autenticità, è una rivoluzione. Esso infatti cambia l’ordine precedente, interviene per costruire qualcosa che prima non c’era, è rivoluzionario. Infatti non si lavora, come il potere ormai ci ha abituati, solo per generare ricchezza o guadagnare uno stipendio, ridurre il lavoro all’impiego del proprio tempo in cambio di un salario significa rendere l’uomo e la sua opera una merce, significa mettere l’uomo sullo stesso piano di ciò che egli, con la propria opera, produce. Invece è l’uomo il fine del lavoro, lavorare significa poter operare ed intervenire nella società, significa collaborare al bene terreno della comunità umana. Per questo il lavoro è rivoluzionario.
Soprattutto per questo, allora, che gli uomini siano impegnati, che abbiano un lavoro degno, che ricevano gratifica della loro opera infastidisce il potere di chi invece ci vuole sottomessi, paurosi l’uno nei confronti dell’altro. Il lavoro, nel suo naturale svolgersi, è quanto di più pericoloso ci sia per il potere costituito. Chi ha un lavoro civilmente regolato e che può contare su questo è infatti una personalità nel suo campo, è una persona capace di insegnare un mestiere, un uomo che può collaborare alla vita degli altri, un uomo così è meno controllabile di chi vive nell’ignoranza, nella paura e nell’ozio forzato.
Per questo il potere è contrario al lavoro libero.
Per questo, oggi, il potere crea disoccupazione, investe solo sulla finanza, ingrassa chi è suo servo umiliando gli altri, per questo, oggi, parlare di lavoro è sempre più difficile, il silenzio davanti alle abolizioni dei diritti dei lavoratori è frutto della mancanza di dialogo che negli ultimi anni il potere ha creato tra le persone. Siamo oggi sempre più impossibilitati a lavorare insieme. Creare opere nuove, cooperative, mettersi insieme attorno ad un progetto è sempre più difficile, un lavoro culturale operativo è profondamente diverso dalle tanto pubblicizzate start up, che esaltano il singolo e la tecnologia isolante, contraria al faccia a faccia. Per chi non può vivere nel dialogo e nell’amicizia tra le persone questo silenzio è diventato la tomba, il trionfo di un potere che ci vuole inoccupati davanti al suo distruggerci.
Per rivoluzionare questa situazione, in cui anche chi ha un lavoro lo vive sempre più come sottomessa schivitù – con pauroso isolamento da colleghi e amici, occorre riprendere il dialogo, occorre ridare alle parole il loro significato originale; occorre tornare a dire la parola lavoro! La vera ribellione rifiuta quella mentalità che esige che il lavoratore sia trattato come fattore di produzione, riducendone la sua umanità a necessità particolari e negandogli la dignità di uomo che ha in esso un desiderio di realizzazione e felicità universale che insegue con il proprio lavoro. Operando questa rivoluzione allora ogni lavoro assume una grandissima dignità, perché grande è la dignità di chi lavora, e uno può affrontare le ore di lavoro con l’orgoglio e la coscienza di star veramente collaborando alla realizzazione di una comunità per sé e per gli altri.
In questo primo maggio vogliamo tornare allora alla radice del lavoro stesso; lavorare è per l’uomo un elemento integrale ed integrante della propria vita, porta in sé l’identità della persona, il suo modo di rapportarsi con gli altri, la sua posizione nella comunità, l’autostima che ha di sé. Per questo esortiamo tutti a riprendere il dialogo tra colleghi, tra disoccupati, tra studenti, tra culture e nazionalità diverse. Perché solo questa rivoluzione culturale potrà far tremare quel potere che oggi ci vuole sempre più soli, paurosi e inerti, quel potere che ci vuole disoccupati.
Pane Pace Lavoro, 30 aprile 2015
Interessante la definizione, anche se la vera rivoluzione è la santità. Il resto sono variazioni sul tema.