L’Europa e la legge di Gresham

di Aldo Giobbio
Da quando infuria la crisi provocata dal debito pubblico riaffiora qua e là la tesi che l’euro sia stato un errore e che sarebbe meglio tornare alle vecchie – anche se tutt’altro che buone – monete. Quando questo discorso viene fatto a proposito della Grecia la mia impressione è che si tratti soprattutto di un modo ipocrita per dire alla Grecia di togliersi dai piedi (“Va per la tua strada e maledetto il giorno che ti ho sposata!”). Per gli altri, invece, ci vedo un’insopprimibile nostalgia per i bei tempi delle manipolazioni monetarie, quando per ridurre il debito e dimezzare i salari bastava svalutare i mezzi di pagamento e la moneta cattiva (secondo la legge di Gresham) scacciava quella buona. Ah, l’inflazione! Quelli, sì, che erano tempi! Alla base di tutto questo c’è, ovviamente, la scoperta che moneta stabile (cioè moneta “vera”), libertà degli scambi e piena occupazione vanno difficilmente d’accordo, o meglio non trovano automaticamente il modo per compensare gli squilibri che generano. Poco male, si dirà: e i governi che ci stanno a fare? Il problema è che l’Unione Europea è stata costruita in modo da togliere ai governi nazionali i loro tradizionali strumenti d’intervento senza porne in essere altri che li potessero sostituire. Il primo atto esiziale è stata la demenziale libertà d’azione lasciata alle banche negli ultimi trent’anni. Gli stati europei avevano impiegato più di un secolo per mettere a punto una legislazione – e soprattutto una prassi – che distingueva gli istituti di emissione dalle banche ordinarie, le banche d’affari dalle banche di deposito e sconto, le casse di risparmio, le banche popolari, le casse rurali e artigiane dagli istituti autorizzati ad esercitare il credito a medio e a lungo termine, e così via, il tutto con il preciso scopo di indirizzare una certa quantità di risorse verso determinati bacini di utenza, e soprattutto di erigere solide barriere tra l’esercizio del credito e la speculazione. Tutto questo lavoro venne cancellato con un tratto di penna. Non ha molto senso meravigliarsi per la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia e per il potere esorbitante assunto dai grandi istituti bancari, quando essi non sono altro che la logica conseguenza di quella premessa.
Un’altra grande arma tolta dalle mani dei governi nazionali – e questo, ovviamente, era implicito nell’idea stessa di costruire un’area di libero scambio – fu la soppressione dei dazi sulle importazioni, con i quali i vari stati avevano tradizionalmente cercato di difendere la produzione interna. Però, paradossalmente, mentre veniva tolta agli stati nazionali la facoltà di tassare i beni d’importazione – e persino quella di fare interventi selettivi sui settori interni più o meno bisognosi di aiuto – venne  lasciato loro il diritto non solo di battere moneta, ma anche di manipolarla attraverso le cosiddette svalutazioni competitive, il che, se non è zuppa, è pan bagnato (se io svaluto la moneta del 20 per cento è come se mettessi una tassa del 20 per cento sulle importazioni). È ovvio che non ci può essere area di libero scambio senza una moneta comune. Infatti, gli ultimi anni prima dell’istituzione dell’euro furono contrassegnati da un purgatorio di tentativi (ricordate il “serpente monetario”, il “serpente nel tunnel” ed altre pittoresche espressioni?) più o meno disperati per cercare di dare un minimo di affidabilità alle monete degli stati membri più deboli, compresa l’Italia. L’istituzione dell’euro fu una necessità, non uno sfizio. A meno di non voler mandare tutto al diavolo.
Alla fine queste anomalie sono venute a conoscenza del pubblico quando è scoppiata la questione del debito pubblico. Anche questo, però, non è caduto dal cielo, né si può imputare per intero ad imprudenza e/o imperizia umane, che pure ci sono state. Mettetevi nei panni di un governo al quale una specie di letto di Procuste vieta gli interventi diretti, una politica economica selettiva e persino l’emissione di moneta, e che d’altra parte considerazioni di politica interna inducono (e questa è la parte di responsabilità che si può correttamente attribuire al potere politico nazionale) a non affrontare i problemi – in particolare quello dell’imposizione fiscale – con la dovuta trasparenza e il dovuto coraggio, sfidando, ovviamente, il rischio di impopolarità: che cosa gli resta se non ricorrere al debito pubblico? Una volta giocare questa carta trovava il limite della capacità di assorbimento del sistema, ma ora? Con un sistema bancario internazionale al quale non pareva vero di potersi buttare in un settore apparentemente privo di rischi? L’occasione fa l’uomo ladro (non giustifico: spiego).
E ora? Come disse padron ‘Ntoni nei “Malavoglia”, “i lupini ce li ha dati e li dobbiamo pagare”, a costo di tirare la cinghia. Dopo, però, no. Non tireremo la cinghia per rimettere in piedi un sistema che ci ha portato fino a questo punto. Non ha senso prendersela con la Bundesbank, con la scusa che, grazie all’euro, le esportazioni tedesche costano meno di quello che costerebbero se ci fosse ancora il marco. Chiediamoci, piuttosto, perché a parità di moneta non riusciamo a competere con i tedeschi. Questo significa anche riprendere a ragionare in termini di fattori reali dell’economia, uscendo dall’infatuazione monetaria che per anni ha travolto anche molte sedi della scienza economica (è evidente che anche la cultura ha le sue responsabilità). Il fatto che lo stato nazionale non risulti più adatto a svolgere certi compiti non significa che non sia necessario che qualcuno li svolga. Siamo disposti a compiere sacrifici per l’Italia e per l’Europa, non per salvare un sistema bastardo che del liberismo ha solo gli aspetti peggiori. (a.g.)

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