Non era giornalista, pur avendone tutti i requisiti, ma si era creato un ruolo ancora più importante. La sua vocazione era accompagnare i professionisti dell’informazione lì dove c’erano ingiustizie da denunciare e far capire al resto del mondo: la repressione contro i più deboli, l’arroganza del potere, il dramma della gente comune. Andrey Mironov, 60 anni, nato a Irkutsk, sul lago Baikal, era diventato il riferimento obbligato per comprendere il mondo sovietico dopo il Grande Crollo, per capirne le dinamiche e l’involuzione sempre più autoritaria del nuovo regime. Ai giornalisti occidentali offriva la chiave per aprire le porte più segrete dell’ex Impero: dalla Cecenia alla Georgia, dai giochi internazionali della Gazprom ai depositi di armi biologiche e chimiche sepolti nelle piane gelate della Siberia.
Andrey Mironov era un personaggio generoso, cercava di soddisfare tutte le richieste di chi sentiva dalla sua parte, senza tirarsi mai indietro e senza misurare troppo i rischi. E’ proprio questo, forse, che ha segnato il suo destino. Andrey è morto il 24 maggio scorso in Ucraina, ucciso in un’imboscata non lontano da Sloviansk, mentre accompagnava sulla prima linea degli insorti filorussi un giovane fotoreporter italiano, Andrea Rocchelli, pieno di entusiasmo e di passione.
Avevo conosciuto Andrey Mironov 12 anni fa a Mosca, in uno dei miei primi viaggi nella nuova Russia, appena dopo aver intervistato la giornalista Anna Politkvoskaja nella redazione della Novaya Gazeta. Anna si era esposta in particolare sulla questione cecena, denunciando i soprusi del Cremlino da una parte e dei guerriglieri ceceni dall’altra ai danni della popolazione civile. Lei stessa sarebbe stata, pochi anni dopo, nel 2006, la vittima più illustre di una guerra dichiarata alla libertà di stampa.
Ci eravamo incontrati in albergo e mentre parlavamo di tanti nuovi progetti di inchiesta, Andrey continuava a massaggiarsi il collo con aria dolorante. Pochi giorni prima, mi confidò, aveva subito un’aggressione da parte di agenti del Kgb, che lo avevano bastonato duramente lungo la strada di casa. Con la polizia segreta Andrey aveva ormai un’esperienza quotidiana. Ancora in epoca socialista era stato rinchiuso in carcere e condannato a 3 anni di Gulag perchè diceva “raccontavo la verità”. A tirarlo fuori era stato un intervento diretto di papa Woytyla, al quale aveva scritto una lettera insieme ad altri condannati. Mi raccontava, scherzando, che gli agenti che lo pedinavano continuavano a lamentarsi che li faceva correre troppo col suo passo veloce. Andrey era anche un uomo di cultura. Il suo riferimento ideale era l’amico Shakarov, il grande scienziato diventato il simbolo della battaglia per i diritti civili nella nuova Russia degli anni Novanta. Era stato membro attivo del Memorial di Mosca, l’associazione non governativa per il rispetto dei diritti umani. Stabilimmo da allora un rapporto diretto di amicizia, più ancora che di collaborazione giornalistica.
Con Andrey mi sono calato nella memoria più fosca dell’epoca dei Gulag e ho incontrato nella sua dacia a 80 chilometri da Mosca, il testimone più importante di quella lontana epopea, Gregori Pomeranc, amico di Solgenitsin e di Shalamov. Con Andrey ho scoperto a Kolzovo, in Siberia, il centro per la produzione di armi biologiche più importante al mondo, dove sono stoccati 300 ceppi di virus tra i più letali: antrace, vaiolo, Marbourg-U.
Con Andrey ho visto i cinque depositi più segreti di micidiali armi chimiche rimasti in Russia, a qualche centinaio di chilometri da Mosca. Con Andrey ho denunciato il pericolo dei reattori nucleari abbandonati nel mare di Barents e a Vladivostok, all’interno di sommergibili abbandonati e ancora da smantellare. Ricordo che da Vladivostok tornammo insieme viaggiando a bordo della mitica Transiberiana. Fu quella l’occasione nella quale approfondimmo di più la nostra amicizia. Passammo insieme in un piccolo scompartimento sei giorni, sei notti e 4 ore, viaggiando per migliaia di chilometri e 9 diversi fusi orari, mentre Andrey tornava ai suoi ricordi di infanzia e citava le letture che suo padre gli faceva del Piccolo Principe e di Dersu Uzala. Fu proprio nella taiga di Dersu Uzala che comprammo insieme diversi vasi di miele di tiglio, dei quali andava ghiotto. Quando passammo da Irkutsk, la sua città natale, lo sentivo commosso, non solo per i ricordi ma anche perchè sinceramente affascinato da quella gelida bellezza.
Andrey era attento e critico nei confronti della politica, ma amava anche profondamente il suo Paese e la sua gente. Viaggiavamo nel grande inverno russo, tra distese sterminate di foreste innevate e di laghi ghiacciati, attraversando la taiga deserta punteggiata di piccole capanne sperdute. “Parlano sempre della Transiberiana e di chi è stato capace di costruirla”, mi diceva Andrey. “Ma nessuno parla mai dei 70mila operai che hanno lavorato per anni, distrutti dalla fatica, e dei 15mila che sono morti, sepolti lungo i binari che andavano tracciando”.
Con Andrey, e con suo grande stupore di fronte a tanto sfarzo, sono entrato a Mosca nel grattacielo della Gazprom, la roccaforte del potere energetico russo. Con Andrey sono tornato in Cecenia, tra le macerie della scuola di Beslan, teatro di uno dei più crudeli massacri di quella guerra maledetta, con più di 300 piccole vittime. “Le guerre svuotano l’anima”, mi disse allora. “Non solo quelle dei guerriglieri disposti a tutto, ma anche quelle di chi ha dato l’ordine di usare i lanciafiamme per snidarli, incuranti della presenza di bambini innocenti”. Andrey faceva ormai di tutto per accontentarmi, nella mia voglia di raccontare storie e personaggi. Anche i più negativi, come quando mi accompagnò, a malincuore, ad intervistare Ramzan Kadirov, il terribile e temibile presidente ceceno. Con tutt’altro spirito, pieno di affettuosa partecipazione, mi aveva accompagnato al Memorial di Grozny e ad intervistare i tanti colleghi giornalisti russi sopravvissuti alla brutalità della censura di regime. E Andrey non aveva esitato ad esporsi anche in prima persona quando denunciò apertamente gli “squadroni della morte” del regime, in una mia inchiesta per Report sulla pena capitale. “Dicono che c’è la moratoria”, aveva detto coraggiosamente davanti alla mia telecamera in una intervista a sensazione. “Ma le esecuzioni avvengono nell’ombra, centinaia ogni anno, per via extra-giudiziale”.
Ho lavorato insieme ad Andrey Mironov, per l’ultima volta, subito dopo l’insurrezione di piazza Maidan, a Kiev e la secessione della Crimea. Dopo giorni passati tra macerie, fili spinati e ritratti dei caduti illuminati dalle candele e cosparsi di fiori, ci ritrovavamo in un ristorante georgiano a bere birra e mangiare khachapuri. Ci eravamo visti più volte anche in Italia, a casa mia, ad Ardesio. Condividevamo gli stessi sentimenti sulla questione dei diritti umani e sul nostro rifiuto della guerra. Andrey, da sempre un attivista impegnato nella causa dei diritti civili, denunciava apertamente la posizione di Putin e il suo doppio gioco sulla questione dell’autodeterminazione. “Se ci credesse veramente”, mi diceva, “lo avrebbe dimostrato anche in Cecenia o in Ossezia, non solo sulla Crimea”. Quello che più lo turbava, comunque, era che l’intervento militare potesse provocare nuove vittime tra la popolazione civile.
Era con questo spirito, certamente, che Andrey aveva deciso di accompagnare un giovane fotoreporter italiano, Andrea Rocchelli, sulla prima linea degli scontri tra l’esercito ucraino e gli insorti filorussi, un ultimo azzardo che sarebbe stato fatale ad entrambi. Andrey era convinto che dietro gli insorti di Donesk e Sloviansk ci fossero manovre destabilizzanti dall’esterno. La loro macchina, a bordo della quale c’era anche un fotografo francese che ha poi raccontato la scena, era stata bersagliata da colpi di kalashnikov. Mentre i due si lanciavano fuori e saltavano in una buca per ripararsi, Andrey Mironov e Andrea Rocchelli sono stati colpiti in pieno da una granata di mortaio.
“Ho capito che non basta denunciare l’ingiustizia”, scriveva Albert Camus. “Bisogna anche dare la vita per cambiarla”. Il mio amico e collega Andrey, questo lo ha fatto e sentiremo in tanti la sua mancanza.
Giorgio Fornoni
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