Siamo scesi in piazza a dicembre e non siamo stati ascoltati; abbiamo continuato a lavorare nelle nostre classi, mentre il governo continuava a promettere una scuola “migliore” (di cui probabilmente non faremo parte); abbiamo continuato a incontrarci, a dialogare e a lavorare con i nostri colleghi per realizzare reali luoghi di educazione, mentre la nostra scuola sta diventando una feroce bestia aziendale.
Noi non vogliamo questa riforma della scuola perché, innanzitutto, in essa emerge quella neutralità dell’educazione che fa cadere i giovani nello scetticismo e nel relativismo, rendendoli succubi e timorosi del potere: quando manca qualsiasi certezza sulla positività della realtà e quando tutte le verità diventano uguali, i giovani non sono più capaci di passione e di costruzione e finiscono per seguire la verità del momento, che è quella di chi vince. Non interesserà più a nessuno la tua passione nello spiegare storia o matematica o ginnastica, perché tutti saranno amalgamanti in un “organico funzionale”, che ci vedrà schiavi alla catena di montaggio! Che ne sarà dei saperi, quando quello che conta è riempire, in un modo o in un altro, un orario di 36 ore?
In un mondo dove tutto prevale sopra alla cultura, l’uomo è educato all’ossessione del profitto e a disfarsi della propria identità! Questo accadrà con la nuova riforma: la cultura lascerà posto al piano aziendale, gli insegnanti saranno stimolati solo a prevalere l’uno sull’altro! E i ragazzi, l’altro elemento della relazione educativa, passeranno in secondo piano. E allora non c’è cultura senza rapporto con l’alterità, non c’è educazione senza la seconda componente della relazione.
Per salvare l’uomo nella globalizzazione e nell’omologazione generalizzata c’è una sola parola: socialità. Questa socialità è eliminata dalla riforma, quando è, proprio, essa che mi spinge a costruire luoghi di umanità nuova, soprattutto nella scuola, che è un ambiente in cui ci si trova in contatto con i colleghi, i ragazzi, gli educatori, il personale ATA, gli ausiliari. La scuola è luogo privilegiato in cui si comincia a costruire con i giovani, cioè si cominciano a educare i giovani al senso della vita. Ma se tutto adesso sarà basato sulla competizione tra insegnanti, su un tecnicismo insensato, su una gerarchia di poteri, cosa rimane all’insegnante? E i tanti precari che continuano a entrare in classe ogni mattina (perché anche loro, sì, hanno mandato avanti la scuola), si chiedono: perché allora devo faticare? Perché andare a lavorare tutti i giorni? cosa porto ai miei alunni? Che significato assumerà per me l’educazione in un luogo dove l’essere umano non conta?
In questa scuola dominata dalla tecnica e dalla disumanità l’uomo perciò scompare dietro i ruoli che, via via, gli sono assegnati e in questo modo tu, insegnante, vieni ridotto al particolare cui il potere è interessato. Se c’è alleanza del potere fuori di me con il potere che è in me, il potere che oggi mi fa dire “io non c’entro”, “tanto la mia cattedra resterà quella”, “tanto la scuola è già allo sfascio”, allora noi siamo schiavi del potere. E come può un insegnante che si dichiara educatore, accettare questo potere, le cui ripercussioni cadranno su generazioni di giovani che gli si siedono di fronte ogni mattina? Ma chi detiene il potere come dominio e non come servizio odia ogni critica e, soprattutto, crede di essere lui, anche stesse guidandoci verso la catastrofe, il rinnovamento in atto.
Certo, la scuola è in pericolo, ma, come diceva Martin Heidegger, “là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva”, uomini e donne che lavorano davvero per una comunità educante.
Pane Pace Lavoro 05 maggio 2015
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