di Aldo Giobbio
Il compianto prof. Tommaso Padoa Schioppa, quando era ministro, disse una volta che le tasse “sono una cosa bellissima”, frase che suscitò una certa commozione e che viene ancora ripetuta. Certo, voleva dire che sono il passaggio indispensabile per poter fare cose bellissime, e su questo certamente nessuno potrebbe dargli torto. Tuttavia, la loro è una bellezza di riflesso: dipende da quella delle cose che si fanno con il ricavato. Che questo sia il caso dell’Italia è tutto da discutere. Pericle diceva che gli ateniesi erano valorosi sul campo di battaglia perché sentivano che essere un semplice cittadino ad Atene voleva dire vivere meglio di un principe in qualsiasi altro posto. Ve lo immaginate un italiano che si dichiara contento di pagare le tasse perché sente che qui i suoi soldi vengono spesi meglio che in qualsiasi altra parte del mondo? Comunque sia, anche se è vero che l’indice di soddisfazione è dato essenzialmente dal rapporto costi/benefici, esiste un limite intrinseco anche a ciò che si può spremere dal cittadino. È esperienza di tutti che spesso bisogna rinunciare all’acquisto di beni di per sé eccellenti e che ci sarebbero di notevole utilità, solo perché non ce lo possiamo permettere. Poi ci sono le tasse che sono brutte in sé, indipendentemente dall’uso che si possa fare del loro ricavato. Per esempio, sono un paio di secoli (più o meno dalla Rivoluzione francese) che si discute sulla bellezza reciproca dell’imposizione diretta e di quella indiretta. Per sommi capi, la destra si è sempre mostrata incline a preferire l’imposizione indiretta perché ne è più agevole la riscossione, mentre la sinistra ha sempre denunciato l’ingiustizia che ne deriva, nel senso che l’imposizione diretta può (anzi deve) essere modulata seguendo le fasce di reddito, mentre quella indiretta (per esempio l’imposta sui carburanti) cade iniquamente sul ricco come sul povero. Per la verità un illustre uomo politico dell’Ottocento, Adolphe Thiers (il massacratore della Comune di Parigi), sosteneva che non era vero, perché si sa bene che i ricchi consumano più dei poveri. Chissà che cosa ne pensava Quintino Sella, quando la Destra storica, quale dono al popolo italiano per la conquistata unità, istituì la tassa sul macinato: i poveri mangiavano certo più pane dei ricchi. In ogni modo, intorno alla metà del XX secolo, quando sembrava che la democrazia avesse vinto la sua sfida con i vari fascismi, l’imposizione indiretta godeva di cattiva stampa. Oggi è ridiventata di moda solo perché quella diretta ha raggiunto livelli tali da obbligare a cercare altre fonti. Il problema è ormai quello del livello assoluto della tassazione, ancor più di quello della sua articolazione. Tuttavia, se l’imposizione diretta può essere paragonata ad una persona originariamente di corporatura normale che con l’andar degli anni o per eccessi alimentari imbruttisce nel senso di diventare deforme, l’imposizione indiretta sconta un vizio d’origine, una bruttezza intrinseca, che si può tollerare solo a patto che venga corretta con cure opportune e tenuta sotto costante controllo.
L’equivalente più vicino alla tassa sul macinato è dato oggi dall’imposta sui carburanti e dall’IVA. L’imposta sui carburanti ha un’evidente connotazione antica: è il classico atto di forza del potere. Non ha giustificazioni teoriche, né economiche né giuridiche. È un colpo di mano del principe che prende i soldi dove li trova. Più pittoresco, in un certo senso, è il caso dell’IVA, l’imposta sul valore aggiunto, dove per “valore aggiunto” si intende la somma delle remunerazioni del lavoro e del capitale. Poiché salari e profitti sono già oggetto di imposizione (evasione a parte), i titolari di partita IVA e i loro eventuali dipendenti, se l’imposta la pagassero loro, sarebbero tassati due volte. In realtà non è così, perché l’importo relativo viene ripercosso sul cliente. Dunque l’imposta cosiddetta sul valore aggiunto è in realtà una tassa sull’acquisto di beni e di servizi il cui ammontare è parametrato sul presumibile valore aggiunto del venditore. Una volta c’era l’IGE (imposta generale sull’entrata) che, a parità di mancanza di giustificazione teorica, aveva almeno il merito di evitare tanti ghirigori. Le si imputava l’effetto “a cascata” (perché veniva applicata ad ogni passaggio nella trafila delle vendite) e veniva accusata di favorire nella concorrenza (il grande feticcio che tenne a battesimo il Mercato comune) le aziende che praticavano l’integrazione verticale (in sostanza le grandi aziende) rispetto a quelle che, per esempio, dovevano acquistare i semilavorati e intervenivano solo nella fase finale della produzione e poi della vendita. Il che era vero, ma compensato, rispetto all’IVA, dalle aliquote molto più basse, che, oltre a non essere percepite dal compratore come troppo vessatorie, non costituivano un particolare incentivo all’evasione. A proposito di quest’ultima, vale la pena di rilevare che l’IVA, sotto questo profilo, con il suo grande margine di evasione, disattende in pieno il presupposto che normalmente viene invocato a favore delle imposte indirette, ossia la già citata relativa facilità della riscossione. Vale la pena di ricordare che, quando venne istituita la tassa sul macinato, Giuseppe Ferrari, in un bellissimo discorso che fece alla Camera, oltre a denunciare l’intrinseca iniquità dell’infame balzello, osservò anche che ci sarebbe stata una forte evasione, perché il governo, in pratica, affidava la riscossione ai mugnai, categoria che – osservava Ferrari senza volerle mancare di rispetto – non era famosa per i suoi scrupoli. In effetti, in qualsiasi sistema che ponga in essere una sostanziale convergenza di interessi nel comportamento irregolare delle parti contraenti, il beneficio per la pubblica finanza finisce col divenire il terzo escluso.
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