Libertà politica e finanza facile

Nel dibattito che oggi sta investendo la politica di austerità (alla quale, oltre tutto, per renderla ancora più impopolare, viene attribuita una matrice tedesca) spicca, almeno da parte di alcuni, una specie di identificazione tra finanza facile e crescita economica (a sua volta sbrigativamente identificata con la piena occupazione e lo sviluppo sociale). Non si tratta, naturalmente, di contestare che in determinate circostanze e tenendo la situazione sotto controllo, una moderata politica di deficit spending possa essere utile all’economia reale. Il problema è che non si vede come le ricette sostenute dai cosiddetti keynesiani (veri o, il più delle volte, supposti) sessanta o settant’anni fa possano trovare in qualche modo applicazione nella situazione di oggi, nella quale, oltre all’enormità del debito pubblico in essere, quello che manca è precisamente qualsiasi strumento utilizzabile per realizzare, appunto, un controllo efficace del deficit o, peggio ancora, dell’inflazione che ne potrebbe essere innescata. Quando non sia banale, l’opposizione all’austerità affonda le proprie radici in modi di pensare (a volte non del tutto consapevoli) che dovrebbero essere analizzati. Per esempio, quello che l’austerità sia “di destra” e la finanza facile “di sinistra”. In realtà è vero il contrario. Keynes (nelle “Conseguenze economiche della pace”, 1919) paragonava l’inflazione all’omicidio.
Il collegamento tra il benessere sociale e lo spendere soldi che non si hanno è di natura politica, non economica. Già nell’Ottocento gli stessi liberali in buona fede (non gli affaristi, ovviamente) si rendevano conto che nei cent’anni dopo la Rivoluzione francese lo stato non era diventato più “piccolo”, anzi tutto il contrario, e soprattutto che la componente di dispotismo nella gestione della cosa pubblica era piuttosto aumentata che diminuita – proprio il contrario di quello che i dottrinari del 1789 si aspettavano ed auspicavano. Si rendevano anche conto, nel contempo, che quella che allora si chiamava la questione sociale non si poteva risolvere con il laissez-faire. Nasceva in quel modo il dibattito – che avrebbe caratterizzato la fin de siècle e poi il XX secolo – sulla compatibilità tra libertà politica e giustizia sociale. Un liberale doc come Luigi Einaudi (1874-1961) sosteneva che liberalismo politico e liberismo economico fossero inscindibili, mentre Benedetto Croce (1866-1952), che in fondo era più un uomo d’ordine che il “filosofo della libertà”, affermava che non lo erano. In realtà ciò che spingeva Einaudi, e altri con lui, a battersi per il liberismo non era insensibilità sociale ma l’idea che il liberismo costituisse una specie di meccanismo cibernetico (ossia capace di autoregolarsi) che avrebbe consentito di limitare quanto possibile l’ingerenza dello stato pur rispettando esigenze sociali di fondo. Trovare un punto di equilibrio era ovviamente molto difficile, ma verso gli anni ’40 del secolo scorso sembrò di averlo trovato. Lo stesso Keynes, che in altri scritti era stato molto aspro con il laissez-faire, chiuse la sua opera più sistematica, la “Teoria generale”, nel 1936, con l’affermazione che in fondo l’economia di mercato era capace di distribuire le risorse in modo accettabile; solo, non tendeva di per sé a massimizzarne l’impiego. Da lì fu facile dedurre che sarebbe bastato incrementare la domanda aggregata per assicurare anche una distribuzione più equa, senza bisogno di fare la rivoluzione. E tutti tirarono un respiro di sollievo.
Ma perché l’inflazione? Keynes morì, a 63 anni, nel 1946. Molte cose erano successe dal 1919: fascismo, nazismo, stalinismo, crisi economica, seconda guerra mondiale… Inoltre, proprio nel 1946, incominciò la guerra fredda. In Gran Bretagna i laburisti avevano vinto le elezioni, ma in America, soprattutto dopo la morte di Roosevelt, si era diffuso un sacro terrore per tutto ciò che potesse anche vagamente puzzare di socialismo, statalismo, dirigismo e così via (al punto che risultò impossibile, nonostante gli sforzi dei laburisti britannici, persino nazionalizzare le grandi imprese tedesche che si erano compromesse con il nazismo). Nel 1944 l’inglese William Beveridge, già famoso per un suo precedente rapporto che viene considerato l’inizio della dottrina del welfare state “dalla culla alla bara”, con la collaborazione di un allora giovane economista, Nicholas Kaldor (che poi fu consulente di governi laburisti) cercò di materializzare le idee keynesiane in un’altra relazione, molto importante, sul tema della “piena occupazione in una società libera”. Val la pena di sottolineare che Beveridge dichiarò subito fuori  causa le manipolazioni monetarie e che Kaldor analizzò quattro soluzioni possibili, delle quali due prevedevano il pareggio di bilancio e due un finanziamento in deficit. A loro volta, le quattro soluzioni si dividevano in interventi diretti dello stato e in sgravi fiscali per sostenere la domanda privata. In sintesi, la prima soluzione poteva consistere in lavori pubblici finanziati in deficit, la seconda sempre in lavori pubblici pagati con le tasse, la terza in una riduzione d’imposta (che ovviamente avrebbe comportato un deficit), la quarta nella riduzione delle imposte (o addirittura nell’erogazione di sussidi) per certe categorie mantenendo l’equilibrio del bilancio con l’aggravio delle imposte per altre. La quarta proposta era certamente la più interessante, ma già allora, nel testo stesso, Beveridge inserì una nota nella quale affermava di averla pubblicata per scrupolo di completezza, ma di ritenerla politicamente inapplicabile. Del resto né Beveridge né Kaldor si facevano molte illusioni nemmeno su un aumento della spesa pubblica finanziato con le imposte, di modo che sul tavolo restavano di fatto solo le due soluzioni che comportavano un deficit di bilancio, e negli anni seguenti l’esperienza si incaricò di dimostrare che persino quando il denaro pubblico veniva speso per qualche opera i governi (con l’approvazione degli economisti di regime) davano maggiore importanza all’immissione di moneta nel mercato che all’utilità dell’opera stessa. In linea di principio l’ideologia privatista rendeva preferibile l’incremento della spesa privata, ma il suo finanziamento attraverso la riduzione delle imposte si rivelò sempre di difficile attuazione. In ultima analisi la soluzione preferita finì con l’essere l’inflazione, con le sue abituali compagne di strada (svalutazione della moneta, dilatazione del debito pubblico, finanziarizzazione dell’economia etc etc.). Resta ancora da capire come un paese come l’Italia sia riuscito a combinare alti tassi di inflazione (almeno prima dell’euro) con altissima pressione fiscale e indebitamento vertiginoso. Certo, sarebbe un bel tema di ricerca, per qualche giovane di buona volontà.
Adesso i nostri soloni se la prendono perché il differenziale sui tassi d’interesse favorisce gli imprenditori tedeschi, ai quali i debiti vengono a costare di meno che agli imprenditori italiani, francesi o spagnoli. Il che è verissimo, ovviamente; però la tendenza dei debitori ad andare a prendere il denaro là dove costa meno è, fra le varie  caratteristiche del comportamento economico, una fra le poche che si avvicini di più ad una legge naturale. L’interesse, in ultima analisi, è commisurato al rischio, e non si può impedire che il tasso scenda se il rischio è minore o salga se il rischio aumenta, salvo che intervenendo (se, quando e dove è possibile) sugli elementi che influiscono sull’entità del rischio. Altre vie non ci sono. Un po’ di anni fa io persi qualche soldo (non molti) comprando titoli (pochi) del debito argentino (più come esercizio, devo dire, che per fare una vera speculazione). Poiché il debitore pagava l’otto per cento, avevo calcolato che se avesse tenuto fede ai propri impegni sarebbero bastati circa nove anni per ricuperare almeno il capitale. In realtà non fu così. Il prestito venne infine liquidato al 30 per cento e, calcolando qualche interesse che nel frattempo avevo percepito, alla fin fine persi circa la metà dell’investimento. Quale fu il mio errore? Ovviamente quello di aver sottovalutato il rischio, perché ritenevo che il governo americano (che qualche tempo prima aveva salvato il Brasile) non avrebbe lasciato fallire l’Argentina, senza pensare che, secondo una definizione attribuita a Borges, “l’argentino è un italiano che parla spagnolo, veste all’inglese e pensa come un francese”, in sostanza una sintesi di tutto ciò che la destra americana odia di più. Si trattò, insomma, di uno di quelli che il prof. Demaria (un grande economista italiano oggi ovviamente dimenticato) chiamava fattori entelechiani (ossia elementi che di per sé non farebbero parte dell’economia, ma sull’economia hanno influenza, a volte anche decisiva). Insomma, l’homo oeconomicus, a volte, lascia cadere l’aggettivo e si comporta da homo e basta. Per me fu un errore imperdonabile (e la lezione valse bene la spesa) perché, essendo in fondo di formazione umanistica, proprio lì sarei dovuto essere più avveduto. Non voglio sembrare più saggio di quello che sono: in ultima analisi sopportai la perdita con una certa filosofia perché l’investimento era molto limitato. Non faccio fatica a credere che altri, che in altre occasioni avevano investito i risparmi di una vita, l’abbiano presa peggio. Secondo un adagio caro ai vecchi economisti (credo citato anche da Einaudi) il risparmiatore ha il coraggio del coniglio, la memoria dell’elefante e la gamba della lepre. Perché meravigliarsi se la memoria del risparmiatore tedesco in materia di inflazione batte qualsiasi proboscide? (a.g.)

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