Marchionne ha ragione

Il titolo è ovviamente provocatorio, tanto più che l’amministratore delegato della Fiat, nei giorni successivi alla sua dichiarazione che aveva fatto credere ad un abbandono dell’Italia, l’ha precisata e in sostanza ridimensionata. Vale però la pena di soffermarci sul principio in sostanza richiamato, ossia, in parole povere, che un’azienda non ha il dovere di restare in un paese nel quale le condizioni siano relativamente sfavorevoli alla sua attività e ha il diritto di trasferirsi là dove esse siano migliori. Ovviamente il discorso corre agli Stati Uniti, dove la Chrysler ha ricevuto un sostegno importante da parte dello Stato. Ma come? E i sacri princìpi del neo liberismo dove vanno a finire? Tu quoque, Brute?
Qui conviene lasciare da parte il contingente e sforzarsi di analizzare l’essenza del problema. Che l’economia sia legibus soluta e possa e debba prescindere dalla politica è una scemenza che nessun vero liberista classico ha mai sostenuto. Semmai la disputa tra liberisti e dirigisti si è svolta storicamente sul terreno nel quale l’azione dello Stato si sarebbe dovuta svolgere. È vero che al limite qualcuno ha fatto coincidere l’azione “giusta” nel privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite, ma queste, come direbbe de Gaulle, sono cose “volgari e subalterne” la cui trattazione per il momento riserviamo ad altra circostanza. Cerchiamo, invece, di volare più in alto. David Ricardo (1817), in un celebre passo nel quale sostiene che un paese avrebbe interesse a decentrare altrove le proprie produzioni meno redditizie persino nel caso che in patria fosse capace di produrre a prezzi più bassi, continua affermando che gli ostacoli a simili trasferimenti sono di natura politica – in sostanza fattori di imprevedibilità come l’incertezza del sistema e la possibile instabilità della società civile – non di natura prettamente economica. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, comprendiamo che il problema non consiste nel contrapporre una supposta generosità del presidente Obama ad una altrettanto supposta avarizia del prof. Monti, ma in un’ipotesi (più o meno fondata ma condivisa) sulla consistenza dei rispettivi sistemi politici. Alcuni dicono che l’intervento di Obama a favore della Chrysler sia stato generoso, altri affermano che sia stato rapace. Ma il nocciolo del discorso non è questo: è che, quale che sia stato, è stato un intervento reale. Monti potrebbe essere di una generosità abissale, ma la diffidenza non si applica alla sua buona volontà: deriva dalla convinzione che non lo potrebbe fare, non perché non vuole ma perché l’Unione Europea glielo impedirebbe.
Tanti anni fa, quando all’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) seguivo le lezioni di diritto internazionale, mi insegnavano che la ragione fondamentale perché uno stato venga riconosciuto come tale non è tanto che esso sia buono o cattivo ma, in ultima analisi, che risponda al requisito di esistere sul serio (ossia, in buona sostanza, che abbia un governo che riesca a governare). Questo a me sembra il punto: gli Stati Uniti sono uno stato, l’Italia no. L’Unione Europea le ha tolto gli strumenti per governare (salvo il diritto di imposizione), ma non li ha assunti in proprio. In questo squallido panorama l’unico segnale positivo mi sembra che si possa riconoscere in un intervento del cancelliere tedesco, interpretabile come una sollecitazione a procedere al più presto per fare dell’Unione Europea un vero stato federale e non, com’è adesso, una casacca d’Arlecchino. Frau Merkel, wir sind in Ihre Hände! Prosegua su questa strada e avrà con sé tutti i veri patrioti italiani ed europei.  (a.g.)

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