Morire per diciotto franchi

di Aldo Giobbio

Nell’orgia di demagogia che ha invaso la nostra scena politica non poteva mancare l’ennesimo tentativo di tagliare il numero e gli stipendi dei nostri parlamentari. Se i rappresentanti del popolo debbano o no essere retribuiti è un tema che è stato oggetto di discussione fin dai tempi della Rivoluzione francese. Se il parlamentare non viene retribuito – si diceva – solo i ricchi se lo potranno permettere; se viene pagato, diventa un mestiere. Sul piano teorico, non è mai stata trovata una risposta perfetta. Sul piano pratico si sono sempre cercate soluzioni di buon senso, che vanno dal rimborso spese per persone che il più delle volte non risiedono nella capitale a indennità di funzione che variano a seconda dell’opinione che si ha del loro lavoro (valgono almeno quanto un dirigente d’azienda?). Nella Seconda Repubblica francese (quella del 1848 che fu poi rovesciata da Luigi Napoleone) l’indennità giornaliera del deputato venne fissata a 18 franchi, una cifra non disprezzabile ma non scandalosa, in un tempo nel quale a Parigi c’erano operai che guadagnavano anche sei o sette franchi al giorno. Ciò non impediva le critiche, e ci è stato tramandato che un deputato si fece ammazzare su una barricata dicendo: “Ora vi faccio vedere che si può morire per 18 franchi”.
Poiché la demagogia ha il suo cavallo di battaglia nel costo della istituzioni parlamentari, al tema delle retribuzioni si associa ovviamente quello del numero dei parlamentari: pochi devono essere, oltre che malpagati. Come al solito, si gioca sulla disinformazione. In realtà, nell’Italietta di Giolitti, che aveva circa 35 milioni di abitanti, la Camera contava più di 500 deputati (grosso modo uno ogni 70 mila abitanti), una proporzione più forte di quella attuale, che è di circa uno su 90 mila. Nel corso della storia, dopo la Rivoluzione francese, la proporzione aurea ha sempre oscillato intorno a un deputato per 80 mila abitanti. Questo valore nasce probabilmente dal fatto che, nell’amministrazione napoleonica (anche nel Regno italico), 80 mila erano gli abitanti previsti per un dipartimento, e il dipartimento eleggeva un deputato. In ogni modo, anche se un po’ empirica e spannometrica, questa scelta esprimeva abbastanza bene l’idea che quanto maggiore è il numero dei rappresentati rispetto al rappresentante tanto minore diventa la rappresentatività di quest’ultimo (insigni costituzionalisti lo hanno fatto osservare anche in queste settimane).
Naturalmente i fautori dei tagli argomentano che in Italia il numero dei parlamentari è in realtà più alto (di fatto intorno al migliaio), perché abbiamo anche il Senato. Anche questo è un tema molto controverso. Altri paesi hanno un sistema bicamerale, ma l’origine non è sempre la stessa. Nella stessa Roma la formula SPQR (Senatus PopulusQue Romanus) indicava chiaramente una doppia sovranità. Oggi i paesi che hanno due camere le hanno perché una rappresenta (sia pure, in molti casi, in forma ormai solo simbolica) antichi privilegi nobiliari, oppure perché si tratta di Stati federali nei quali le realtà oggi federate preesistevano all’unificazione (quindi anche in questo caso c’è almeno un residuo di doppia sovranità). Questo tema si potrebbe, per esempio, ripresentare se nascessero (quod est in votis) gli Stati Uniti d’Europa (campa cavallo). Per l’Italia il problema teoricamente non si pone, perché la Costituzione ha abolito la nobiltà e il federalismo è sempre stato escluso non solo dalle istituzioni ma anche dalla cultura politica corrente (salvo che da qualche autore formalmente rispettato ma praticamente sempre disatteso come Cattaneo e Gioberti). Quindi il vero tema sarebbe “a che serve il Senato?” e dalla risposta – ottenuta dopo lungo e serio dibattito – potrebbe nascere la decisione se tenerlo o sopprimerlo. Ma forse un dibattito del genere sarebbe respinto come una perdita di tempo e di soldi da chi in realtà vorrebbe sopprimere la democrazia e che per il momento è disposto a tollerarne gli istituti solo a patto che non lo disturbino. (a.g.)

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