Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della politica. E non nel senso volgare e ampiamente sfruttato della casta, del ceto parassitario etc. No, no. Nel senso nobile, della scienza della quale noi italiani attribuiamo la fondazione a Machiavelli e della quale ci riteniamo nel mondo i più eccellenti, anzi unici, cultori. La quintessenza di questa concezione della politica è che il bene di una comunità non coincide con quello di coloro che la compongono, che perciò deve essergli sacrificato. E poiché il bene di questi a volte si vede relativamente bene e quello comune si distingue con maggiore difficoltà, ne consegue che solo una élite di specialisti è capace di fare le scelte giuste, che la verità è sempre controintuitiva, che la democrazia è una cosa troppo delicata per essere lasciata al popolo – e che pertanto “altro si dice in piazza et altro in palazzo” – ma soprattutto che la scelta preferibile è sempre quella più complicata e che comporta sconfitte certe in vista di successi improbabili. Una tale concezione della politica comporta anche che si possano mandare al patibolo persone rispettabili e perfettamente innocenti. Tuttavia, poiché essa respinge l’idea che l’abile politico sia un cinico criminale, la sua azione viene giudicata non dalla maggiore o minore brutalità dell’atto compiuto ma dal grado di sofisticazione della procedura attraverso la quale si è arrivati a quell’atto. Questo porta i politici – e più ancora i loro commentatori e apologeti – ad essere sensibili – per usare le parole con le quali Tocqueville (in un’epoca nella quale non si parlava ancora di “società dello spettacolo”) descriveva la cultura della Seconda Repubblica (quella francese dei suoi tempi, s’intende, non la nostra) – “più alla buona dizione e alla buona recitazione degli attori che al valore del testo”. Ne conseguono comprensibilmente una forte tendenza all’autoreferenzialità e una altrettanto forte ripugnanza a farsi giudicare sui risultati, e meno che mai da coloro sui quali tali risultati sono ricaduti. Poiché questo tipo di “spirito letterario in politica” (sempre per attenerci alla terminologia di Tocqueville) è ovviamente più consono a chi è lontano dal potere che a chi ne è parte attiva, c’è una certa logica nel fatto che esso sia coltivato nella sinistra più che nella destra e in Italia più che in altre nazioni. Però è anche una delle nostre peggiori disgrazie, come purtroppo si è visto anche nello squallido spettacolo relativo all’elezione del presidente della Repubblica.
Un commento a quello che è successo a Roma tra il 18 e il 20 aprile deve necessariamente partire da un doveroso omaggio all’eminente uomo di Stato e grande italiano che con evidente sacrificio personale, mettendo una pezza su una situazione demenziale, ha per lo meno salvato la faccia di un paese che stava sprofondando non solo nel caos ma anche nel ridicolo. Ciò premesso, e dato a Cesare quel che è di Cesare (o, se preferite, unicuique suum, come direbbero i gesuiti), pezza è stata e pezza rimane. Grillo ha tenuto sulla corda (secondo me sbagliando) Bersani per un mese, ma poi si è ripreso alla grande con la candidatura di Rodotà, vera pietra di paragone per il Pd. Perché Bersani non ha detto ai suoi di votarlo? Perché sapeva che il partito non lo avrebbe seguito. A Prodi sono mancati cento voti; a Rodotà ne sarebbero mancati di più. Io avrei compiuto lo stesso un atto dimostrativo, ma queste sono valutazioni personali per le quali non si può fare la mosca cocchiera. Il punto è che comunque non sarebbe passato, e non per colpa della componente ex democristiana. No, i voti necessari che gli sarebbero mancati sarebbero stati quelli dei “politici” nel senso che abbiamo spiegato sopra. Perché il voto per Rodotà sarebbe stato una presa di posizione netta, e questo non è consentito dalle regole dell’arte. Quando mai si è visto che un partito di sinistra voti per un candidato di sinistra? Ohibò! Troppo rozzo. Degno dei barbari d’oltre frontiera, gente dedita a far quadrare i conti e a fare quello che dice. Puah!
Fra l’altro, in quello che è avvenuto c’è un paradosso enorme. Personalmente considero – e ho sempre considerato – l’infatuazione per il bipartitismo come una forma di infantilismo politico. È però curioso che quella stessa classe politica che per anni – a destra e a sinistra – ci ha riempito le orecchie con lo slogan “la maggioranza governa, la minoranza aspetta di vincere le elezioni successive”, non appena si è accorta che le famiglie politiche, ahimè, sono più di due, ha riscoperto le “larghe intese” e, quando le si è presentata la possibilità di una candidatura che avrebbe potuto raggruppare il 50 per cento dei voti l’ha vista non come una forma di compattamento ma come un fattore di divisione: e che altro è, di grazia, il bipartitismo? L’argomento che il presidente dovrebbe essere “il presidente di tutti” suona strano sulle loro bocche, perché, se il paese dovesse veramente essere ridotto al bipartitismo, cioè spaccato in due, il “presidente di tutti” dovrebbe essere importato da Marte. Non per nulla la Gran Bretagna è una monarchia – folklorica e di interesse turistico – come del resto quelle di tutte le “grandi democrazie” nelle quali il re “regna ma non governa” (altra frase senza senso). In tutti i posti dove il capo dello Stato conta qualcosa (Stati Uniti, Francia) è sempre espressione di una parte.
Adesso, fra tutte le cose che si sono dette in questi giorni, salta fuori l’idea che il capo dello Stato si potrebbe anche eleggere direttamente (pare che qualche paese, come gli Stati Uniti e la Francia, già lo faccia). Io penso da anni che sia una cosa più che sensata, anzi la sola che sia compatibile con la teoria della divisione dei poteri. Però comporta una modifica della Costituzione, e mi chiedo se un Parlamento come questo, eletto con il porcellum, sarebbe legittimato a farla. A parte che, se una tale elezione dovesse essere fatta in tempi brevi, sicuramente l’eletto sarebbe Beppe Grillo, motivo più che sufficiente perché tutti gli altri si oppongano. (a.g.)
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