Dunque il 27 marzo i parlamentari del M5S hanno dichiarato a Bersani prima e ai giornalisti dopo che “all’unanimità” non appoggeranno né direttamente né indirettamente un eventuale governo Bersani. La motivazione del gran rifiuto non si può certo trovare (né del resto loro stessi lo pretendono) nella natura del programma, sibbene nella “mancanza di credibilità” di Bersani stesso, del PD e di tutti coloro che in un passato remoto o recente hanno fatto parte dell’establishment politico della Repubblica italiana. Questa non è una motivazione politica: è semplicemente un insulto. Ma non ci vogliamo formalizzare. Si rendono conto, queste persone, questi campioni del popolo sovrano, della responsabilità che si assumono? Non fare nessuna distinzione tra chi negli ultimi anni è stato al potere e chi è stato all’opposizione non sembra già di per sé una prova di grande sagacia. Per altro, se non si fidano di Bersani ma non contestano il suo programma dichiarato, che cosa vieterebbe di metterlo alla prova, consentendogli di partire e tenendolo costantemente sotto tiro alla prova dei fatti? Ma c’è di peggio.
Se è vero, come è vero, che il Parlamento è sostanzialmente diviso in tre, se una delle tre parti si chiama fuori non ci sono che due esiti possibili: o le altre due parti si accordano o nessun governo è possibile. Supponiamo che la situazione internazionale, gli imperativi dell’economia, il rischio di un collasso sociale e così via rendano ad un certo momento inevitabile quello che Berlusconi chiama un “governissimo”, che cosa sarebbe questo se non il compattamento di quell’establishment la cui eliminazione il M5S dice di volere con tutte le sue forze conseguire? Sarebbe questo il punto d’arrivo del successo elettorale? Sarebbe questo ciò in cui hanno creduto i seguaci di Beppe Grillo? (Guardo la cosa dal loro punto di vista, non dal mio). Ma supponiamo invece che il PD tenga duro nel rifiutare qualsiasi “inciucio” con Berlusconi e soci. Che cosa si potrebbe fare? Pregare la Germania di mandarci un commissario ad acta. Trovare qualche generale che abbia voglia di fare un colpo di Stato. Andare a nuove elezioni.
Le prime due ipotesi (che io qui elenco solo per scrupolo di completezza) sembrano al momento fuori del quadro istituzionale e (speriamo) della storia. Ma anche andare a nuove elezioni con la legge attuale sarebbe pura follia. Questo, però, dimostra che, anche solo per fare una nuova legge elettorale (sperabilmente più consona ad un paese che si vorrebbe democratico), è assolutamente necessario che siano messi in piedi alcuni strumenti di lavoro. Facciamo pure l’ipotesi di un regime d’assemblea, nel quale le commissioni e il plenum lavorassero senza far riferimento al governo. Occorrerebbero pur sempre un minimo di organizzazione e anche qualche cosa che nel frattempo facesse almeno le veci di un governo, non foss’altro che per gli affari correnti. (Per esempio, chi pagherebbe alle aziende i loro crediti, ora che finalmente l’UE ci consentirebbe di farlo?). Fra l’altro, tra le cose da fare nel frattempo ci sarebbe l’elezione del presidente della Repubblica, per la quale Bersani e Monti potrebbero anche fare da soli, senza chiedere voti a nessun altro, cosa che Berlusconi sa e Grillo sembra ignorare, e se andare a nuove elezioni è proprio quello che i parlamentari del M5S vogliono, eccoli serviti, perché il nuovo Capo dello Stato potrebbe sciogliere le Camere, mentre Napolitano, ora, non lo può fare. Ma che cosa direbbero ai loro elettori: di avergli chiesto di mandarli in Parlamento solo per renderlo inutile e non operante? Per distruggere sé stessi (pazienza, sono affari loro) e la patria (questo, invece, ci riguarda tutti)? Ci pensino. (a.g.)
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