Riflessioni sull’art.18

di Aldo Giobbio
La “giusta causa” o il “giustificato motivo” per legittimare il licenziamento non sono stati  introdotti nel diritto italiano dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (comunemente detta Statuto dei lavoratori). Esistevano già in virtù della legge 15 luglio 1966, n. 604. La novità dell’articolo 18 sta nell’aver invertito il diritto di scelta tra la reintegrazione reale e quella cosiddetta obbligatoria (in sostanza un indennizzo in denaro) passandolo dalle mani del datore di lavoro a quelle del lavoratore. Mi spiego: la legge n. 604/1966 riconosceva al datore di lavoro al quale il pretore avesse dato torto il diritto di scegliere tra riprendersi il lavoratore ingiustamente licenziato oppure chiudere la questione con una certa quantità di soldi (non molto grande, a dire il vero). L’art. 18 della legge n. 300/1970 ha tolto tale diritto al datore di lavoro riconoscendo invece al lavoratore il diritto di rinunciare alla reintegrazione nel suo posto di lavoro in cambio di soldi, già in partenza fissati ad un livello superiore (almeno 15 mensilità) ed evidentemente destinati a salire, visto che il lavoratore dovrebbe essere d’accordo e quindi – secondo le metafore truculente entrate nell’uso del dolce stil novo – “tiene il coltello dalla parte del manico”.
La previsione di legge può sembrare molto pesante per le aziende. In realtà parecchi fattori limitano la propensione del lavoratore a chiedere (con speranza di ottenerli) indennizzi assurdi e vessatori. Innanzi tutto non bisogna dimenticare che, perché l’azienda si venga a trovare in tale scomoda posizione, bisogna che l’autorità giudiziaria le abbia dato torto, alla fine di un giusto processo nel quale avrà avuto modo di sostenere le proprie ragioni. Questa considerazione può sembrare di scarsa importanza per quella parte dell’opinione che considera legittimata la sfiducia nell’autorità giudiziaria e trova del tutto naturale attribuirle le peggiori intenzioni. Un argomento del genere, però, non può trovare posto in uno stato di repubblica bene ordinato e se lo trova vuol dire che si tratta di un problema ben più grave, che non si risolve abolendo l’art. 18. Questo, naturalmente, non significa che l’azienda, anche nel caso che abbia torto marcio, debba incorrere di fatto in una pena aspra e inumana. In realtà – salvo nel caso che la vertenza abbia una valenza politica, e quindi, dall’una e dell’altra parte, non si badi a spese – il mercato del lavoro pone già di per sé limiti alle pretese. Infatti, se i posti di lavoro appetibili sono scarsi, non c’è praticamente indennità tanto elevata da spingere il lavoratore a rinunciare alla reintegrazione. Se invece il mercato tira può darsi che il lavoratore abbia già trovato qualcosa di meglio e quindi non gli convenga tirare troppo la corda, dal momento che l’azienda condannata può sempre rompere la trattativa offrendosi di reintegrarlo, cosa che costringerebbe il lavoratore a rifiutare sic et simpliciter o comunque a chiudere la vertenza con più miti pretese, per non perdere il nuovo posto. Stando così le cose, se è vero che a prendere di petto l’art. 18 si rischia una guerra di religione, non è detto che non si possa trovare qualche soluzione che reintroduca una certa elasticità salvaguardando la giustizia, per esempio agendo non sul principio ma sulle procedure di conciliazione. Dopo tutto, se il datore di lavoro e il lavoratore sono ambedue portatori di interessi legittimi, sarebbe conforme alla physis di uno stato di diritto che a dirimere le eventuali controversie (fino in fondo, non solo in parte) fosse un terzo supposto imparziale (nemo iudex in sua causa). L’Italia non manca di giuslavoristi e questi non mancano dell’immaginazione necessaria per trovare qualche soluzione utile.
Tutto bene. Ma non sarebbe più semplice fare come in Danimarca? Sì, se l’Italia fosse la Danimarca – o le assomigliasse almeno un po’. In linea di principio un imprenditore è una persona che sfida un avvenire incerto in base a certe sue intuizioni o a calcoli di probabilità più o meno raffinati, assumendosi in anticipo oneri certi. È dunque più che legittimo da parte sua che egli si aspetti di poter contare almeno su un certo margine di manovra. Dal momento che le sue eventuali manovre hanno sempre, in un modo o nell’altro, qualche effetto sul funzionamento della società, è altrettanto legittimo che lo stato pretenda di metterci il naso. D’accordo, quando Hitler arrivò a rovesciare la Repubblica di Weimar servendosi anche del voto dei disoccupati, i senza lavoro erano proprio tanti. Tuttavia, anche senza arrivare a tali casi estremi (quod Deus avertat), credo che nessuno contesti che trovarsi sulle braccia qualche milione di disoccupati sia comunque, per qualsiasi governo, una bella gatta da pelare. D’altra parte ogni persona di buon senso capisce che l’attaccamento al posto di lavoro del momento è tanto maggiore – fino a diventare assoluto e spasmodico – quanto minori sono le probabilità di trovarne un altro o eventualmente sopravvivere senza troppi problemi in attesa di trovarlo. Ne consegue che in presenza di una politica del lavoro attiva ed efficace, uffici di collocamento ad alta efficienza, sussidi di disoccupazione decenti, programmi di riciclaggio ben pensati e bene eseguiti (è evidente che non stiamo parlando dell’Italia) cambiare posto e persino tipo di lavoro (per quanto mi sembri difficile che, per esempio, un docente di sociologia della comunicazione si possa riciclare senza troppi problemi non dico come idraulico ma nemmeno come giornalista) può anche rivelarsi un’esperienza tutto sommato non traumatica, e magari anche istruttiva e stimolante (a me, per esempio, fare uno stage nel consiglio d’amministrazione di una banca non dispiacerebbe). Non è dunque che, dal mio punto di vista, le idee sostenute dal presente governo e anche da qualche accademico siano anatema. Anzi. Solo, temo che si finisca col mettere il carro davanti ai buoi, che è in genere un modo poco favorevole a una marcia spedita e può anche diventare molto spiacevole per i buoi che, nascosti alla vista, finiscono con l’essere dimenticati, oltre tutto in un territorio nel quale gli aspiranti macellai non mancano.