Sentenza Berlusconi: svolta politica o svolta morale?

La sentenza con la quale il 1° agosto la Corte di cassazione ha confermato il giudizio della Corte d’appello di Milano che condanna Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione (dei quali tre condonati) per frode fiscale, rendendolo così definitivo, costituisce certamente un fatto storico nelle vicende politiche italiane di questi anni. Non ci riferiamo alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che i giudici di Milano avevano fissato in cinque anni e che la Cassazione ha trovato eccessiva, senza per altro contestare il principio che un certo periodo di interdizione, in ogni caso, gli compete. Al momento, la differenza essenziale fra questi due pronunciamenti è che, se la sentenza di Milano fosse stata confermata anche su questo punto, il senatore Berlusconi avrebbe dovuto lasciare immediatamente il suo seggio, mentre così potrebbe aspettare il tempo necessario (previsto in pochi mesi) perché la Corte d’appello di Milano stabilisca il nuovo ammontare conforme alla legge. Se non è zuppa, è pan bagnato. Del resto Berlusconi potrebbe essere obbligato a lasciare il Parlamento anche a causa della legge che rende ineleggibili coloro che hanno avuto una condanna per corruzione (si discute, però, se il suo caso rientri in questa fattispecie). D’altra parte, si può benissimo governare un partito anche senza essere membro del Parlamento. Si veda il caso Grillo o – se ci vogliamo alzare in altri cieli – quello, ben più illustre, di don Luigi Sturzo, che non poteva entrare in Parlamento perché l’elezione era interdetta ai sacerdoti, ma del quale nessuno dubitava che fosse il leader del Partito popolare. Si potrebbe dire che se Berlusconi si trovasse per un anno agli arresti domiciliari (in cella non andrà comunque, a causa dell’età), questo potrebbe essere un impedimento materiale per partecipare di fatto ai lavori parlamentari. Questo, però, non è sicuro (ricordo il precedente, anni fa, del senatore Lino Jannuzzi).

In ogni caso, questi sono dettagli. La vera questione politica è di quanti italiani saranno ancora disposti a seguire come loro guida un uomo che come presidente del Consiglio chiedeva agli altri, a termini di legge, di pagare le tasse, mentre per prima cosa non le pagava lui. Questa, in qualsiasi paese civile, non sarebbe una domanda, e il fatto che in Italia lo sia denuncia la situazione di sfacelo – morale prima che politico – nella quale è caduto questo paese. In molti seguaci di Berlusconi  c’è un profondo disprezzo – alimentato dal loro stesso capo – per la magistratura, valutata come un nido di comunisti. Finora questo giudizio si applicava principalmente ai giudici di Milano, e il fatto che la sentenza della Cassazione abbia reso loro onore sarà utilizzato non per riabilitare Milano ma per sostenere che l’infezione è arrivata anche a Roma. Quindi Berlusconi sarà considerato come una vittima delle tante purghe staliniste. Naturalmente ci sono anche quelli che non capiscono che male ci sia nel non pagare le tasse, e quindi pensano che la condanna – anche se fosse giusta dal punto di vista dei comuni mortali – sia invece un omaggio reso al loro eroe. Devo dire che questi ultimi sono quelli che mi preoccupano di meno, perché sono pur sempre persone che seguono una loro idea, per quanto discutibile.

Altri, che credono di essere più sottili, sostengono che il giudice deve tener conto della situazione (come Pilato quando mandò sulla croce Gesù di Nazareth). È inutile obiettare loro che alla magistratura compete solo di accertare tre cose: primo, se un certo fatto c’è stato; secondo, se l’imputato vi ha avuto parte; terzo, se il fatto era contra legem. Se il giudice risponde “no” anche ad una sola di queste domande (il fatto non sussiste, l’imputato non è stato lui a commetterlo, il fatto non costituisce reato) l’imputato deve essere assolto; se no, gli devono essere irrogate le pene comminate dalla legge. Sarà, risponderanno, ma se l’assoluzione di un innocente o la condanna di un colpevole creano problemi allo Stato, la ragion di Stato – o piuttosto di governo, che per loro non fa grande differenza – deve prevalere: “salus populi suprema lex esto”. In che cosa possa consistere la salvezza di un popolo, se non può contare sull’indipendenza della magistratura, questo non lo spiegano.

C’è poi una terza categoria di pensatori la quale ritiene che il potere abbia sempre ragione, e che pertanto, se un leader politico riesce a mettere insieme un numero di seguaci sufficiente a far paura agli altri, diventa intoccabile. Questa è demagogia, non democrazia, ed è un caso particolare di una dottrina più vasta – e che purtroppo ha avuto i suoi momenti di fortuna – secondo la quale il successo giustifica tutto. Per quanto sia disgustoso, probabilmente potrebbero essere proprio questi a favorire in qualche modo il cambiamento, perché, essendo sempre pronti a saltare sul carro del vincitore e ad abbandonare la nave che affonda – non per banale opportunismo, ohibò, ma in omaggio alla teoria – le disgrazie del leader che hanno appoggiato finora credendolo invincibile, inossidabile e invulnerabile li potrebbero indurre a prendere le distanze nel momento nel quale si rendono conto che non lo è più. (a.g.)

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