Un’economia di carta velina

Articolo di Aldo Giobbio sulla recente Conferenza di Parigi sul clima

 

di Aldo Giobbio

Le ultime settimane hanno visto due avvenimenti in apparenza poco correlati fra loro e comunque di rilevanza molto diversa, l’uno mondiale e l’altro correlato alle bagatelle di casa nostra. Sto parlando della conferenza di Parigi sul riscaldamento del pianeta e del pianto greco sollevato dalla ferale notizia che il livello dei prezzi in Italia è sceso di qualche decimo di punto. Incominciamo dal primo. Che i grandi della Terra abbiano deciso di fare qualcosa per limitare il massacro dell’ambiente è ovviamente, di per sé, una buona cosa. Avrebbero dovuto incominciare cinquant’anni fa ma cerchiamo di non essere pignoli. Meglio tardi che mai. Il problema sta nella fedele applicazione degli impegni presi, e l’atteggiamento del tipo “vai avanti tu, che a me viene da ridere” assunto da qualcuno dei partecipanti suscita qualche perplessità. In ogni caso, speriamo bene e cerchiamo di fare il nostro dovere. Quanto al secondo avvenimento, il leggerissimo ribasso dei prezzi italiani al consumo, se il denaro costa poco e il personale si può licenziare non dovrebbe sembrare poi così scandaloso che i costi di produzione e di conseguenza i prezzi possano scendere di qualche centesimo di punto. Evidentemente si guardano le cose solo dal lato della domanda e non anche da quello dell’offerta. Persino nel caso che, come sembra, a scendere siano i prezzi dei cosiddetti beni salario, la notizia non dovrebbe essere così disastrosa per le imprese, perché in ultima analisi tale discesa rende meno difficile resistere alle spinte salariali. I classici, poi, avevano certe opinioni in proposito (in particolare che il ribasso dei prezzi rilancia la domanda), ma chi crede più ai classici?

C’è un rapporto fra queste cose, e quale? Il rapporto – o meglio il comune denominatore – è che l’economia della Restaurazione (quella di Reagan e di Margaret Thatcher) soffre dello stesso male del quale soffriva duecento anni fa la politica della Restaurazione (quella di Metternich e di Talleyrand): quello di essere intoccabile, assolutamente anelastica, incapace di resistere a qualunque spiffero. Già cinquant’anni fa la chiamavano un’economia di carta. Ora è un’economia di carta velina. Ve la immaginate la sua resistenza agli sconquassi che saranno (o sarebbero) provocati da quella che (non facciamoci illusioni) per essere efficace dovrebbe essere una vera e propria inversione del modello di sviluppo? All’inizio degli anni ’70, quando in sede CEE l’appello di Aurelio Peccei venne raccolto da Sicco Mansholt e Altiero Spinelli, il loro collega di commissione Raymond Barre, che era un conservatore, propose per salvare capra e cavoli la formula “pollueur payeur”, volendo con questo dire che le imprese inquinanti avrebbero dovuto pagare il costo del disinquinamento. È passato quasi mezzo secolo e, per quanto i suoi obiettivi fossero molto più circoscritti rispetto a quelli che ci si propone oggi, l’inquinamento non è sostanzialmente diminuito, anche se in parte si è trasformato (dalle nuvole di gas alle polveri sottili), e questo non tanto – o non solo – per la subdola resistenza opposta dal sistema delle imprese (vedi scandalo Volkswagen) quanto e soprattutto a causa della globalizzazione. In un sistema mondiale nel quale la circolazione delle merci è libera ma vige in politica la sovranità degli Stati, ogni paese sfrutta, in ultima analisi, la risorsa che gli costa meno, fosse pure, questa, la vita dei propri sudditi (e meno che mai quella degli altri). Del resto, anche a Parigi, per quello che ne sappiamo, si è parlato molto di carbone e molto meno di petrolio, benché il motore a combustione interna contribuisca al riscaldamento del pianeta più delle centrali a carbone. (Semmai se la prendono con il diesel, forse perché gli USA non ne sono grandi produttori). Uno scrupolo per non offendere paesi esportatori che sono all’avanguardia della democrazia e dei diritti dell’uomo, oltre che buoni acquirenti di armi? (a.g.)

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