Vacche magre e vacche morte

di Aldo Giobbio
Che industriali e banchieri si agitino per ottenere la tassa sul patrimonio suscita, in un uomo della mia età, forti emozioni, evocando fantasmi di mutazioni darwiniane o addirittura, per dirla in un linguaggio oggi desueto, di rovesciamento della prassi. In realtà la tassa oggi proposta, sia nell’entità di fonte imprenditoriale (l’1,5 per mille sui patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro) sia in quella più pesante proveniente dalla fonte sindacale (da 0,55 a 1,8 per mille, a partire da 800 mila euro), non sembrerebbe comunque tale da mandare sul lastrico contribuenti in ogni caso collocabili nella parte agiata della popolazione. Con tutto ciò, mi stupisce alquanto lo spirito relativamente giulivo con il quale si parla di queste cose, dimenticando che il tipo di civiltà nel quale bene o male (più male che bene) viviamo oggi affonda le sue radici in due rivoluzioni (quella inglese del XVII secolo e quella francese) che ambedue hanno avuto il loro punto di partenza in problemi di fisco e che sono costate la testa ad un paio di re. È pur vero che la gente reagisce con maggiore facilità all’ammontare del prelievo, piuttosto che alla sua natura. Tuttavia, una tassa sul patrimonio merita qualche riflessione.
Intanto: che cos’è il patrimonio? L’ammontare dei beni mobili e immobili nella disponibilità di una persona? Perché non chiamarlo proprietà? Forse per evitare altri fantasmi. E allora lo vogliamo chiamare capitale? Ahi! Il capitale si definisce come qualcosa che è capace di dare un reddito, anche virtuale, che è tassabile; anzi, che viene effettivamente tassato. È il principio sul quale venne costruito il catasto di Maria Teresa, nel quale Carlo Cattaneo, e molti con lui, hanno visto l’origine della prosperità della Lombardia. Tale principio, del resto, vige ancor oggi: lo ritroviamo nella rendita catastale, e non vale dire che questa è spesso calcolata male, perché la risposta sarebbe “allora calcoliamola bene” – e non “inventiamo altre tasse”, perché non si può tassare due volte lo stesso cespite. Certo, non tutti i beni di una persona (fisica o giuridica) si possono, seguendo questa definizione, definire “capitale”. Però lo sono i conti in banca, anche quelli di corrispondenza, perché in linea di principio sono produttivi di interessi (anche se al momento sono di fatto vicini allo zero) tassabili e tassati. A maggior ragione sono capitale tutte le forme di prestiti e/o di investimenti, suscettibili di ottenere interessi o dividendi tanto più alti quanto maggiori sono l’abbandono della liquidità e il rischio assunto dal prestatore, e se i rendimenti oggi sono bassi perché viviamo in tempi calamitosi non per questo muta la loro natura. Qui non si tratta nemmeno di redditi presunti, ma di redditi effettivi, e se oggi la tassazione di tali redditi dà scarso gettito perché i redditi stessi sono bassi, questo triste fatto non giustifica che si tassi il capitale. Sarebbe come uccidere la vacca perché non dà abbastanza latte. Qualche volta si fa, ma lasciamo almeno che sia il proprietario a decidere. Quanto all’idea che almeno una parte del gettito ricavato dalla tassazione del capitale potrebbe alimentare detrazioni dall’imposta sul reddito delle persone e delle imprese, i casi sono due: o questo rigiro viene fatto con una certa equità, e allora ciascuno finanzierebbe sé stesso mangiandosi il capitale, oppure i soldi sottratti a certi soggetti sotto forma di imposta sul patrimonio entrerebbero nella tasche di altri sotto forma di sgravi fiscali, e quindi ci sarebbe una forma di trasferimento basata sull’esproprio (idea non nuova nella storia ma che di solito non ci si aspetta da quella parte).
Resterebbero quelle parti di patrimonio che non si possono definire capitale perché non sono produttive di reddito (opere d’arte, mobili antichi, auto d’epoca, pelli di tigre, cimeli della guerra d’Abissinia, ceramiche del Settecento, ritratti di famiglia e così via). Si tasserebbero anche quelle? In teoria sarebbe possibile, però in buona sostanza si entrerebbe nel terreno molto paludoso di quelle che una volta si chiamavano leggi suntuarie. È un’ipotesi che può sembrare curiosa, ma non totalmente estranea alla cultura politica di un’epoca che, dopo aver liquidato qualsiasi (anche remota) possibilità di rivoluzione proletaria, oggi sembra dedicarsi con impegno a liquidare anche la rivoluzione borghese e non rifiuta nessuna suggestione che accenni all’Ancien Régime (si veda, per esempio, l’importanza crescente che ha assunto un’accisa come l’IVA). Se la borghesia italiana possedesse ancora qualcosa di vagamente somigliante ad un’autocoscienza del ruolo, ben sapendo che la situazione attuale comporta diversi inconvenienti anche per lei ma è pur sempre meglio di certe alternative che si profilano e che, in ogni caso, è sempre per lei meno pesante di quanto non lo sia per altre componenti della società civile, farebbe meglio ad autotassarsi per un versamento una tantum che si potrebbe anche chiamare “tassa di solidarietà”, purché le fosse chiaro che si tratterebbe soprattutto di solidarietà verso sé stessa.

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