Le pietose manovre intorno a quella che dovrebbe essere la nuova legge elettorale dovrebbero suggerire al cittadino responsabile alcune riflessioni intorno a certi problemi di fondo, che riguardano non solo la nostra vita politica ma la nostra esistenza nel suo complesso. L’argomento di moda è che l’elettore dovrebbe avere il diritto di scegliere il capo dell’esecutivo (ossia il presidente del consiglio). Non c’è niente di male in tutto ciò. Solo, quel tipo di regime nel quale il capo dell’esecutivo viene eletto direttamente dal popolo si chiama repubblica presidenziale. Anche in questo non c’è niente di male. Personalmente gli vanno tutte le mie simpatie. C’è solo un problema: non è previsto dalla nostra Costituzione. Infatti, il tipo di regime (politeia) che la Costituzione del 1948 ha disegnato è una repubblica parlamentare (ovvero, se si volessero chiamare le cose con il loro nome, un regime d’assemblea). A me non piace molto, perché, se il governo è l’espressione di un corpo legislativo, addio divisione dei poteri. Ma come? Se tutta la storia della Prima Repubblica è caratterizzata dall’instabilità dei governi! Calma: quella era la conseguenza della divisione nel potere, non dei poteri. Anche la storia dell’impero romano è piena di congiure di palazzo, ma questo mica significa che quello fosse un regime liberal-democratico.
Naturalmente, capisco benissimo le ragioni che a suo tempo portarono i padri fondatori a tale scelta. Uscivamo da vent’anni di dittatura e tutto ciò che poteva richiamare l’idea di un esecutivo forte faceva paura, o almeno suscitava una giustificata diffidenza. In realtà, la repubblica presidenziale (almeno come la troviamo nel modello americano, che dei regimi oggi esistenti è ancora il più vicino allo schema di Montesquieu) è molto più conforme alle esigenze liberal-democratiche di quanto non lo sia un regime d’assemblea. È pur vero che il presidente eletto ha le mani praticamente libere per tutto il suo mandato (salvo l’accusa di attentato alla Costituzione o di alto tradimento o eventualmente di sesso orale, come è capitato qualche anno fa ad un presidente non peggiore di tanti altri), però il corpo legislativo (Camera dei Rappresentanti e Senato) è del tutto svincolato nei suoi confronti e, specialmente quando la maggioranza appartiene a un partito diverso, esercita con la massima libertà e severità il controllo sul suo operato, gli nega i fondi, e, nel caso estremo dell’impeachment, lo può persino obbligare a dimettersi. I progetti italiani, invece, con la scusa della governabilità, mirano a fare in modo che il candidato alla presidenza del consiglio si tiri dietro, qualora eletto, una maggioranza precostituita che non gli potrà dare alcun fastidio e che in realtà non si capisce che cosa ci stia a fare. Questa non è né una repubblica presidenziale né una repubblica parlamentare: questa è una monarchia elettiva, sia pure a tempo limitato, senza nemmeno il correttivo della Dieta dei nobili che aveva, nel XVIII secolo, il regno di Polonia.
Dei difetti del regime d’assemblea abbiamo detto. C’è però un punto che deve essere sottolineato. Poiché l’assemblea eletta dal popolo riassume praticamente sia il potere legislativo sia quello esecutivo, il modo di eleggerla è il pilastro del sistema, anzi il 90 per cento della sua presunzione di legittimità. E poiché il minimo che si possa pretendere da essa è che sia, almeno, veramente rappresentativa, ne consegue che il sistema proporzionale (eventualmente con qualche sbarramento di modestissimo livello e qualche premio di maggioranza ugualmente piccolo) è il solo sistema elettorale che sia in qualche modo coerente con le premesse. È evidente che, se il corpo elettorale è molto frazionato, l’assemblea risulterà pure molto divisa e questo fatto avrà come conseguenza la fragilità dei governi, che di per sé è un fatto negativo. La stabilità dell’esecutivo non è un valore assoluto (Mussolini fu inamovibile per vent’anni ma i risultati non furono buoni) ma, ovviamente, nemmeno il continuo gioco delle poltrone è auspicabile. Però non si può mettere il carro davanti ai buoi. Un parlamento molto diviso, al limite dell’ingovernabilità, è sempre la conseguenza e il segno rivelatore di un paese altrettanto diviso, e, come diceva Cavour, se c’è un disagio nel paese è meglio che esso emerga in una camera di espressione e di composizione come appunto il parlamento, piuttosto che lavorare sott’acqua ed emergere all’improvviso in forme potenzialmente disastrose. Ho già detto che non considero la repubblica parlamentare il meglio del meglio, né la Costituzione del 1948 come non modificabile in eterno. Però, finché c’è, non si può pretendere di inserire nel sistema apporti con essa incompatibili, senza produrre guai peggiori. La macchina usata impropriamente o si inceppa o salta. I tentativi ora in atto di far servire le istituzioni attuali a scopi anche legittimi ma per i quali non erano state progettate portano solo a risultati aberranti. I contorti e ridicoli sistemi elettorali che oggi vengono proposti e discussi trovano la loro origine anche in interessi di parte più o meno confessabili. Però, anche se chi li propone fosse al di sopra di ogni sospetto e impiegasse capacità eccezionali, il risultato non sarebbe molto diverso, perché comunque ci sarebbe una contraddizione insuperabile tra ciò che si vuole fare e lo strumento che a tale scopo si pretende di usare.
Ancora una parola sulle cosiddette primarie. Finché esistono partiti, sembra logico che la designazione del candidato (o dei candidati) venga effettuata all’interno dei partiti stessi. In tale contesto, il fatto che la designazione diventi di competenza di tutti gli iscritti e non solo dei vertici si può considerare un problema di democrazia interna, che ogni partito risolverà in accordo con i propri princìpi. Può sorgere un problema solo sull’ipotesi che possano partecipare alla votazione anche persone estranee al partito stesso. A questo c’è un’obiezioni di tipo dietrologico però non manifestamente infondata. Se nel partito x sono in lizza Tizio e Caio, e il partito y ritiene che, di fronte all’elettorato, Tizio risulterebbe più pericoloso, potrebbe mandare un certo numero dei suoi a votare Caio, per farlo designare al posto di Tizio e trovarsi poi di fronte, nelle elezioni “vere”, il meno pericoloso dei due. Troppo machiavellico? Mah! Comunque sia, il mio scarso entusiasmo per l’idea di far votare anche gli “altri” nasce da un’altra considerazione, ossia che le primarie diventino una specie di sondaggio per vedere quale dei candidati avrebbe più chances di raccogliere voti anche al di fuori del partito, non tra i militanti del partito avverso (ovviamente) ma tra gli incerti, i senza partito e così via. Ora, è pur vero che il cosiddetto bipartitismo, in una società che si suppone poco ideologicizzata (secondo me, certo poco ideologicizzata a sinistra, dopo tutto quello che è successo, ma non altrettanto fra i ben pensanti, ancora ossessionati dagli spettri del passato), si riduce sostanzialmente ad una caccia ai voti di quella che durante la Rivoluzione francese si chiamava la “palude” (sono cambiati in modo significativo anche i nomi: non si parla più di “destra” e “sinistra” ma di “centro-destra” e “centro-sinistra”), ma così si trasformano le elezioni in una specie di doppio turno senza nemmeno le garanzie costituzionali che un vero doppio turno richiederebbe. (a.g.)
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