PRIMA GIORNATA, venerdì 10 maggio 2013
Introduzione di Marco Romani, responsabile del PPL (testo integrale):
Abbiamo voluto, di nuovo, come per l’iniziativa che organizzammo dal 10 al 12 ottobre 2008 al “parco delle caprette”, utilizzare la parola “Siesta” per indicare queste giornate di incontri promosse da Pane Pace Lavoro.
In quell’occasione iniziammo dicendo che desideravamo “proporre, a tutti, un momento e un simbolo di “siesta” e di riposo, contro l’incessante e assurdo correre di una società che è ormai disumanizzante, di una società che vuole essere la fabbrica tecnologicamente perfetta di un impero così umanamente impossibile da ricordare la disfatta di quello mitico di Babele”. Dicevamo inoltre che era necessario, in un momento molto grave di emergenza democratica e contro lo stato di menzogna e di disumanità, ed oggi il momento non pare molto differente, reimparare la parola “libertà” e tornarla a gustare nella pratica, così da far nascere naturale una distanza umana, culturale, sociale e politica da quelle personalità che vogliono negare ogni diritto alla resistenza o al dissenso.
Oggi, come già 5 anni fa, vogliamo ancora dire che c’è ancora qualcuno che non tace di fronte al conformismo del potere, che c’è qualcuno che dissente dalle propagandate verità false, che c’è qualcuno che già sta vivendo uno spazio di libertà.
Credo che queste parole, riprese dall’allora discorso introduttivo, siano ancora oggi necessarie per poter introdurre gli interventi di questa sera e delle due serate che seguiranno.
Non possiamo però, oggi, prescindere dai cinque anni che, da quegli incontri, sono passati; cinque anni in cui in Italia e nel mondo moltissime cose sono accadute, facendo maturare esperienze e personalità, svelando nuove menzogne e brame di potere, portando alla luce nuovi razzismi e generando allo stesso tempo imprevisti eroismi. Non possiamo prescindere nemmeno dagli amici che ci hanno lasciato, i cui nomi, anche se non pronuncio esplicitamente, sono stampati nei cuori e nelle azioni di migliaia di persone.
Non prescindere da tutto questo significa aver compreso che non si può muovere un passo in questa lotta se non ci si impone di essere uomini nuovi, se non si lotta per creare un costume e uno stile di vita, se non si lotta per riscoprire e liberare una cultura.
Solo in questo modo potremo evitare due grandi rischi: l’asservimento e il tradimento.
L’asservimento di chi, se non è quell’uomo nuovo, è certamente preda di quell’ideologia che lo vuole schiavo e sottomesso: il buon cittadino che il potere vuole che egli sia, tenendolo asservito alla propria logica, che rende impotenti in ogni luogo, persino in quelli in cui si potrebbe ritenere di essere in qualche modo liberi.
Il tradimento di chi, non avendo oggi rapporti umani e sociali nuovi, tornerà di certo, domani, a creare quelle contraddizioni, anche in una nuova società, nelle quali ora, coscientemente o meno, si alimenta, tradendo la vera aspettativa di chi lotta con lui.
Entrambi i rischi sono e saranno sempre presenti in qualunque azione rivoluzionaria che, presumendo, erroneamente o per pigrizia mentale, una omogeneità tra le parti che la compongono, ritenga che queste possano giungere autonomamente e spontaneamente alla coscienza di una propria cultura, dando per scontato il faticoso e difficile processo di rivoluzione culturale.
L’invito di Pane Pace Lavoro è quindi, ancora una volta, quello di attuare per la conquista di una nuova coscienza rivoluzionaria, che si formi a partire dall’azione sul campo e che abbia in sé un azione di acculturazione interna ed allo stesso tempo esterna.
Questo tipo di lavoro però presuppone che non ci possano essere un lavoro intellettuale ed uno pratico separati, che non ci possa essere un lavoro teorico slegato dall’azione. Non possono essere separati lo scrivere il libro e il volantinare, così come non possono essere separati lo studio dall’aiuto al compagno nei suoi bisogni immediati: nessuno può escludere il benché minimo fattore della lotta politica (e della vita quotidiana), pena il ridurre a nullità tutto ciò che un’azione ha di storicamente pregnante.
Le personalità che in queste serate si alterneranno racconteranno proprio di questo struggente desiderio di una nuova cultura e di una viva azione per l’ apparentemente assurda pretesa di costruire spazi di libertà.
Riportiamo la sintesi degli interventi dei due primi interlocutori della Siesta 2013 che è iniziata venerdì 10 maggio in piazza a Reggio Emilia e che prevede due altri appuntamenti il 17 e il 24 prossimi.
Michel Warchawski, cofondatore dell’Alternative Information Center di Gerusalemme, è giornalista e attivo costruttore di molte iniziative a favore dell’avvicinamento dei popoli palestinese e israeliano. Quest’anno ha ritirato a Parigi il premio della Repubblica Francese per i diritti umani destinato a ricompensare le azioni individuali o collettive condotte sul campo.
Pane Pace Lavoro gli aveva chiesto di raccontare, con la sua esperienza, quale possa essere la “Battaglia per la pace”.
Warchawski inizia con una considerazione su questo invito a fare “siesta”. Avere momenti di riposo non significa addormentarsi, ma piuttosto avere lo spazio per fare il punto della situazione, considerare ogni aspetto e prendere decisioni su dove si vuole andare. La creazione, la natura, la terra hanno bisogno di riposare. Non si tratta quindi di una mancanza, un lusso, un disimpegno, giacchè tutta l’ingiustizia del mondo “ci impone di bagnare le nostre camicie” .
Nella regione mediorientale vigeva un sonno indotto da regimi dittatoriali, da una propaganda subdola e violenta o dalla repressione armata. Oggi viviamo un meraviglioso risveglio, come un soprassalto di questi popoli che non vogliono più dormire; un risveglio per ottenere rispetto e diritti. Ma quello di cui si parla dicendo “primavera araba” non è questione di breve periodo. Una rivoluzione è un processo lento, non l’evento iniziale: è fatta di avanzamenti e di ritirate, di vittorie e di sconfitte, di giorni luminosi e di faticosi tentativi. Certamente la macchina è partita e niente potrà più fermarla.
Noi uomini tutti faremo parte di questa rivoluzione? Cioè: questa aspirazione di uguaglianza, di legalità, di libertà è anche la nostra o continueremo a essere ciò che eravamo? Nel primo caso, tutto è aperto, altrimenti non ci sarà avvenire, tristemente, per i nostri figli. Senza unirci a tale anelito non ci sarà la pace.
Warchawski spiega che la motivazione di tutta la propria azione non è solo per i diritti dei palestinesi, piuttosto pensa ai propri nipoti. Dice che a muoverlo è una ragione egoista: “lo faccio per il loro comune futuro”. La vittoria appartiene a coloro che lottano per la giustizia, il lavoro, la pace. Se non sarà così non potremo escludere che sul nostro domani ci possa essere la catastrofe nucleare. Si tratta di uscire da un concetto di etnizzazione: ora sono i palestinesi a soffrire l’occupazione coloniale e l’oppressione, e non c’è dubbio che la loro resistenza non cesserà per questo, perché sono molto radicati su questa terra, ma l’esito di questa loro resistenza riguarderà anche i nostri figli se noi, oggi, entriamo a far parte di un movimento più ampio in cui tutti potremo essere i protagonisti delle politiche per l’uguaglianza, la libertà, la giustizia.
In tal senso si può spiegare anche la manifestazione spontanea avvenuta nei mesi scorsi a Gerusalemme promossa da ambienti della borghesia israeliana.
Un’osservazione più particolare merita la questione siriana. Non può essere comparata a quanto è avvenuto in Egitto o in Libia dove sono state abbattute delle dittature che si reggevano sull’appoggio dell’Occidente. Il regime di Assad ha una base popolare, per questo, in Siria oggi si combatte una guerra civile e non si può parlare di sollevamento popolare. Questo fa sì che le potenze internazionali, per esempio Russia e Francia, stanno armando entrambe le parti in guerra. Questa guerra durerà, perciò, a lungo, almeno fino a quando si troverà un compromesso politico tra le forze che si fronteggiano.
Il nostro sistema è in crisi e da questa parte del Mediterraneo se ne sente più fortemente la morsa. Ma la cosa più grave di questo momento non è la crisi in sé ma piuttosto perdere la speranza di uscirne perché non si vedono i modi per affrontarla. La strada è quella della patria, della pace, ma soprattutto del lavoro, perché è con il lavoro che si trovano il pane e la pace. Chi è senza lavoro è gravemente privato della sua umanità e purtroppo corriamo il rischio di chiuderci a difesa del poco che rimane nelle nostre patrie sentendoci minacciati da altri modi di vita e da pressanti bisogni.
Non bisogna lasciarsi derubare la speranza di poterci conquistare il modo di vivere tra uomini da uomini. L’esperienza delle molte resistenze che hanno cambiato il corso della storia hanno anche rivelato modalità diverse del resistere. Stéphane Hessel, autore di “Indignatevi”, racconta di aver potuto resistere a Buchenwald per due ragioni: perché aveva un fisico che glielo ha permesso e perché recitava ogni giorno poesie di ogni autore, di ogni civiltà, di ogni cultura. La stessa cosa Michel lo ha visto fare nelle tante ore d’attesa in cui li avevano costretti a un chekpoint israeliano a ridosso dei Territori.
Aldo Giobbio, giornalista, professionista, si è occupato di economia, sindacati, politica internazionale e storia contemporanea. Autore di numerosi saggi che accompagnano la storia del lavoro e della politica del nostro paese, ha identificato il suo impegno come giornalista con l’intervento pronto e pungente su ogni evento, passaggio e momento critico della storia della politica, attraverso i numerosi articoli, gli interventi pubblici, le collaborazioni con le principali testate giornalistiche italiane. Da alcuni anni è assiduo scrittore sul sito di Pane Pace Lavoro.
Il suo intervento, riprendendo l’ultima provocazione di Warchawski, ha riguardato la situazione di crisi economica nella quale ci dibattiamo. “Libertà di chi?” per spiegarci meglio le radici di quanto ci accade.
Il filo conduttore, in estrema sintesi, è che il carattere fondamentale di quello che sta succedendo oggi nell’economia europea e in particolare italiana presenta, sì, aspetti economici rilevanti, ma nella sua essenza è politico, o meglio ideologico. Possiamo prendere in considerazione tre fattori, che sono quelli più comunemente citati: il comportamento delle banche, il debito pubblico e l’euro. Le banche, come noto, sono accusate di aver anteposto la speculazione a quello che dovrebbe essere il loro compito istituzionale, il servizio all’economia reale. Un valente studioso, Andrea Baranes, ha scritto in proposito un ottimo libro (Finanza per indignati, Ponte alle Grazie, 2012). Fra i dati significativi da lui riportati vale la pena di metterne in evidenza almeno uno: di tutto l’enorme rigiro di soldi solo l’1,4 per cento si può considerare legato all’economia reale. L’Autore ne trae la conclusione che o l’attività bancaria non ha quasi più nulla a che fare con l’economia reale o lavora con un tasso di efficienza ridicolmente basso. Quest’ultima considerazione è fondamentale, perché il presupposto ideologico sul quale sono state costruite le vicende post anni ’80 – a partire da Ronald Reagan e Margaret Thatcher – è che lo Stato sarebbe inefficiente mentre il mercato non avrebbe pari nella capacità di utilizzare in modo ottimale risorse relativamente rare che hanno impieghi alternativi. Che le banche abbiano una certa tendenza a uscire dal seminato non è una novità: basta pensare alla crisi del 1929. Però fu appunto in seguito a quella crisi che le autorità americane ed europee – anche quelle italiane – provvidero a porre in atto meccanismi intesi a rendere meno facili i comportamenti nocivi per l’economia. Il primo, nel 1932, fu il Glass-Steagall Act, che separò l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari e che è stato revocato nel 1999, durante la presidenza Clinton. Molto importante è stato anche l’aggiramento dei limiti all’indebitamento delle banche, il cosiddetto leverage. L’accordo di Basilea 2, nel 2004, aveva fissato nell’8 % il rapporto tra riserva e capitale investito, ma questo limite è stato sistematicamente violato. Nel 2008 le banche principali avevano rapporti di leverage tra l’1/30 e l’1/60.
In questi giorni i guru del neoliberismo (ovvero “pensiero unico”) attaccano la BCE perché non inonda il mercato di liquidità, come fanno la Federal Reserve e la Banca centrale giapponese. In realtà la BCE pratica oggi un tasso dello 0,50 per cento, e quindi non è la liquidità che manca. Il punto è che le banche preferiscono investire nel debito pubblico piuttosto che finanziare le imprese, e non si può nemmeno dar loro torto, visto il differenziale sui tassi che così possono lucrare. Ma anche l’enorme ammontare del debito pubblico è un fatto più politico che economico. In Italia il debito pubblico equivale oggi più o meno al 125 % del Pil, che è molto ma non è una novità. Nel 1995 non era molto diverso. Il fatto è che il ricorso al debito è stata una costante del sistema. Fino ai primi anni ’90 il meccanismo era sostenuto dal fatto che la Banca d’Italia era obbligata a ritirare, a tasso prefissato, i titoli che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato. È vero che il meccanismo generava inflazione, ma a questo si rimediava con la svalutazione della moneta. Nel 1993 il cosiddetto “divorzio” tra il Tesoro e la Banca ha svincolato quest’ultima da tale obbligo. Ovviamente la necessità di trovare compratori sul mercato ha generato l’aumento dei tassi, mentre l’introduzione successiva dell’euro ha impedito di giocare sulla moneta, e così la tenaglia si è chiusa. Ma di chi è la colpa?
Così si arriva al discorso sull’euro. È chiaro che pagare in moneta buona è sempre più pesante che pagare in moneta cattiva, ma è demenziale l’atteggiamento di chi crede che la soluzione ai nostri mali passi per l’uscita dall’euro e un bel round di svalutazioni competitive. Si dimentica che l’euro è stato istituito proprio per evitare cose del genere. Un tempo lo strumento per limitare le importazioni e favorire le esportazioni era il meccanismo dei dazi doganali. Tale strumento è ovviamente venuto meno con l’istituzione del mercato comune. Però, fin dal principio, è stato evidente che non ci poteva essere un vero mercato comune se il protezionismo, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra attraverso la manipolazione delle monete. La costruzione di una moneta comune è stata un compito difficile, ha richiesto molti anni ma è stata percepita fin dal principio come un’esigenza non eludibile. Questo significa che oggi uscire dall’euro – e tanto più farlo con propositi di guerra commerciale – equivale alla messa al bando dall’Unione Europea e l’apertura di un avvenire simile a quello dell’Albania ai tempi di Enver Hoxha. È questo che vogliamo? (a.g.)
SECONDA GIORNATA, venerdì 17 maggio 2013
Dopo l’approfondimento dei temi internazionali riguardanti i conflitti guerreggiati del Medioriente e quelli non meno cruenti della finanza globale, nella seconda giornata della Siesta 2013 ci siamo occupati di buona politica, quella che si spende per azioni di partecipazione e di rinnovamento del tessuto sociale.
“Politica è la forma più compiuta di cultura” ha esordito Nicolò Ferrari di Pane Pace Lavoro. “Ogni fatto chiarisce e aggiunge significato alle parole precedenti, e ogni parola attende l’illuminazione e la trasformazione che le verrà data dal fatto seguente”, perciò l’invito della seconda giornata è quello di “addentrarci nel particolare della situazione di chi ci è immediatamente più prossimo per vederne la difficoltà del vivere e scoprire le tracce del nuovo che si fa strada”.
Il primo a prendere la parola è stato il sindacalista Loris Cavalletti. Ha introdotto raccontando delle origini della crisi economica che ha coinvolto anche il movimento sindacale. L’esperienza del sindacalismo italiano, negli anni 70 e 80, ha consentito a migliaia di lavoratori di acquistare un ruolo da protagonisti nella vita sociale e politica italiana garantendo l’attuazione concreta dei diritti costituzionali fondamentali. Con l’avvento del liberalismo di stampo inglese e americano si è consegnata la supremazia, nelle politiche economiche, alla finanza anziché al lavoro così che, progressivamente, sono state compromesse le condizioni dei lavoratori, si è favorita silenziosamente la contrapposizione tra i giovani e gli anziani, si è tentata l’espulsione del sindacato dalle aziende e dai tavoli contrattuali con le Istituzioni. Il rischio più grave, nell’attuale situazione, è che i lavoratori perdano la speranza di poter cambiare lo stato delle cose, assecondando la menzogna che i mercati debbano inevitabilmente determinare la vita delle persone. C’è da recuperare il senso del lavoro, che non è solamente dare uno stipendio per favorire i consumi, è, più significativamente, possibilità di partecipazione allo sviluppo della propria terra, della coscienza civile, dell’identità di popolo. La cosa richiede di prendere in mano la nostra vita con un cambiamento anche personale di mentalità, nel rifiuto dell’individualismo sfrenato, della centralità assoluta del denaro, della resistenza alla contrapposizione fra generazioni. Il sindacato dei pensionati FNP Cisl, che Cavalletti dirige in Emilia Romagna, sta pensando a progetti di utilizzo delle molte persone ancora efficienti per formare nuove professionalità tra i giovani. Serve però, più complessivamente, un risveglio della coscienza civile e della responsabilità di tutti per imporre di cambiare direzione alle scellerate scelte economiche degli ultimi decenni che hanno dimenticato l’uomo.
Anche l’azione dell’avvocato Vainer Burani si svolge su una frontiera impegnativa. C’è l’urgenza di vedere rispettato il “diritto dei popoli” giacchè l’emigrazione non è, come si ritiene comunemente, un “problema” ma un fenomeno dei nostri giorni durante i quali avviene una trasformazione complessiva del mondo nella sua struttura geopolitica, culturale, religiosa, comunitaria. Il primo fondamento del diritto dei popoli è l’idea dell’uguaglianza: la capacità di mettere al centro dei diritti e dei doveri delle nostre società l’uomo, quello concreto che, oggi, affronta condizioni disumanizzanti e farlo indipendentemente dalla sua provenienza, religione, etnia. Burani ha spiegato tale sua convinzione raccontando di alcuni recenti processi nei quali, con una distorsione della realtà delle cose e un uso pretestuoso delle parole, si sono tentati veri atti di offesa alla dignità della persona. Tra questi, vedersi negata la cittadinanza a causa di una presunta simpatia dei genitori verso gruppi inseriti in black list; accuse infamanti nei confronti di esponenti di famiglie Tamil per aver promosso a Reggio Emilia azioni a sostegno del proprio popolo in Sri Lanka; respingimenti negli aeroporti senza informare del diritto di richiedere asilo politico. La realtà reggiana è ancora quella “ricca e infelice”, come veniva definita qualche anno fa, perché non è capace di vergognarsi di certi suoi comportamenti e perfino di quelle che professa come verità. Ma molti giovani si interessano del suo lavoro, si fanno presenti per indicare iniziative: “un nuovo popolo sta venendo fuori”.
Giovanna Caroli è l’assessore alla cultura e alla promozione del territorio di un piccolo Comune reggiano, Casina. Racconta del frutto del lavoro di un gruppo di cittadini che ha provato a occupare uno “spazio vuoto” mettendo la loro iniziativa e le proprie competenze a disposizione della comunità. Ne sono nate una biblioteca, due riviste -“Argomenti” e “Quaderni sarzanesi”-, il recupero del sito del castello matildico di Sarzano per esposizioni, promozione di giovani artisti, rassegne cinematografiche, sviluppo di Associazioni, una casa editrice, il coinvolgimento di uomini di cultura originari del paese e la ristrutturazione della Casa Cantoniera come spazio custodito, durante l’inverno, per il ritrovo dei più anziani che diviene, nella stagione turistica, teatro per spettacoli e altre manifestazioni. La crisi che morde le finanze comunali non impedisce di ricavare gli strumenti per fare cultura dalla partecipazione personale, dall’intelligenza e creatività dei cittadini che, quando hanno già di che sostenersi, operano gratuitamente, nella decisione di esserci, di fare parte della vita della comunità, di essere i protagonisti del risveglio e del cambiamento, occupandosi anche della memoria del passato storico (come le origini matildiche) e di quello più prossimo delle due guerre mondiali di cui recuperare, conservare e diffondere molti documenti locali, alcuni dei quali provenienti dagli stessi paesani tornati reduci da quelle terribili esperienze. L’Assessore non dimentica neppure la nuova realtà dell’immigrazione che interroga anche l’attualità di un piccolo Comune. Conclude dicendosi certa che un cambiamento di tipo culturale è prima di tutto quello di mentalità, una mentalità che passa dall’idea di “usare” la cultura come una cinghia di trasmissione ideologica alla esperienza della partecipazione come aiuto a fare comunità.
TERZA GIORNATA, venerdì 17 maggio 2013
Matteo Riva è attualmente consigliere comunale a Reggio Emilia e in Regione Emilia Romagna. Pane Pace Lavoro l’ha avuto capolista nell’ultima tornata elettorale per l’elezione del Senato della Repubblica.
Il suo intervento alla Siesta si è incentrato sulla fare politica nell’attuale momento di distacco dei cittadini dall’impegno per la Polis .
La classe politica pare aver dato le spalle alla realtà delle persone comuni e, progressivamente, cresce l’incapacità di un dialogo tra le parti capace di trovare le vie per affrontare e risolvere i bisogni dei cittadini. La radice di tale incapacità sta nell’adorazione incondizionata di un nuovo potente dio, quello dell’interesse individuale. Se si volessero affrontare i veri bisogni dell’uomo bisognerebbe uccidere tale dio. Riva è partito da tale presupposto per affrontare il tema che gli era stato proposto: la politica come dialogo di identità.
Ritornare a partecipare, quali parti di un popolo, alla ricostruzione e alla possibilità di un futuro richiede di poter riconoscere identità a confronto, in un dialogo che sappia riconquistare il senso del bene comune oltre gli interessi individuali. C’è molto da fare in questo senso perché sempre più è venuta a mancare l’appartenenza a una storia, a una ispirazione culturale, a un’antropologia, distruggendo in tal modo le diverse identità. Per questa ragione anche momenti di incontro tra cittadini come quelli della Siesta sono passi di autentica libertà e azione politica perché rimettono chi è direttamente coinvolto in una appartenenza di popolo al centro dell’azione. Essa diviene, in tal modo, l’opera di molti e non la disperata difesa degli interessi di pochi. Torna ad essere modalità di costruzione ed esercizio della democrazia, a differenza delle larghe intese con le quali, nel tradimento del voto dei cittadini, si è conservato un sistema di potere autoreferenziale e distruttivo.
Da cittadini dobbiamo superare un pericolo insidioso: la paura che ci hanno alimentato di perdere ciò che abbiamo, che ci serve, che ci dà sicurezza per il futuro. Sono pericoli reali, ma chi alimenta la paura si allea con essa non per dare risposte capaci di affrontare e risolvere i bisogni, ma per spingere a una chiusura e un disimpegno nell’arroccamento sull’interesse individuale. Per affrontare le sfide che ci stanno davanti e per fare in modo che le diverse storie di un unico popolo possano tornare a confrontarsi e a collaborare occorre superare la paura che ci tiene lontani dall’impegno diretto nella costruzione del nuovo. E’ un bisogno di libertà da esercitare, libertà che, sola, può portare alla giustizia e prospettare un futuro.
Un vivace dibattito ha consentito a Riva di raccontare della nascita di “Arcipelago”, un’esperienza di dialogo tra cittadini che hanno abbandonato i vecchi partiti politici senza per questo aver perso il gusto e la passione per l’azione politica e che in Regione Emilia Romagna stanno ricercando, nel dialogo e nella progettazione, le vie per una nuova proposta politica.
Non sono mancate le domande a riguardo della città di Reggio Emilia dopo che il Sindaco ha lasciato per diventare Ministro nel governo Letta. Ne è uscito un giudizio severo su questa Amministrazione che pare mancare non di efficienza ma di umanità.
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