di Matteo Riva
Senza nascondersi dietro il dito dell’ipocrisia, del falso buonismo o, ancor peggio, senza voler rincorrere la xenofobia o il razzismo, vorrei fare una proposta per la gestione dell’accoglienza del fenomeno migratorio, il quale è certo un problema non solo attualissimo, ma dimostra anche l’umanità e la solidarietà di cui dovrebbe essere capace un Paese come la nostra Italia. Purtroppo bisogna riconoscere che per responsabilità di molti politici emersi dall’esaurimento delle liste di attesa dei partiti del Novecento, questo argomento tende a far dividere i cittadini in buoni o cattivi a seconda di come la si pensi.
L’immigrazione è un dato di fatto. In Africa la media è di 5,8 figli per donna, un dato in crescita; in Europa di 1,2, un dato in calo. Con il tempo, chi è di più riempie lo spazio lasciato libero di chi è di meno, è un processo naturale non evitabile o controllabile. Questo processo avviene poi in un lungo periodo, che sempre più si accentuerà, in cui in Europa la ricchezza complessiva corrisponde, grosso modo, a quella accumulata, in crescita costante e detenuta da non più di 50 persone. Dunque in un periodo in cui, dal 2008 in poi, la cosiddetta classe media ha lasciato spazio a una sempre più numerosa schiera di poveri, ovvero di chi fatica a far quadrare i conti per avere 3 pasti minimamente soddisfacenti al giorno. In questa situazione si è accentuata, fomentata dai populisti in cerca di voti e dunque anch’essi di stipendio o mantenimento economico, una lotta tra poveri per dividersi le briciole che quei 50 soggetti di cui parlavo prima lasciano cadere dalla tavola dei loro banchetti. L’Italia e l’Europa devono, nel rispetto degli ideali costitutivi loro propri, essere accoglienti e solidali, ed al tempo stesso non devono permettere che si possa fomentare questa guerra tra fratelli poveri.
Un altro gravissimo problema, tornato di nuovo sulle prime pagine dei giornali proprio in questi giorni, sta nel fatto che l’accoglienza si è trasformata per alcuni in un business. Questo, però, accade poiché è lo Stato stesso che l’ha delegata impostandone i criteri unicamente sul denaro, su quei famosi 35 euro al giorno per migrante gestito da associazioni e/o cooperative misericordiose o meno che siano. Quando un problema come questo viene gestito pagando e delegando, significa non aver a cuore il problema stesso e non averlo compreso. Si ritiene solo di doverlo affrontare in quanto emergenza continua, ben sapendo che tale fenomeno è ormai vecchio come la fine dei due blocchi, almeno dalla fine del 1989.
Lo Stato, invece, dovrebbe avere una idea, un progetto una prospettiva per tutte le persone che vivono sul proprio suolo. Deve essere un progetto che tenda all’eguaglianza, alla solidarietà, alla giustizia e alla pace, nel rispetto profondo della Costituzione Repubblicana di un Paese fondatore dell’Europa come è il nostro.
Ora mi chiedo: perché non decidere che quei 35 euro siano riconosciuti ai nuovi come ai vecchi cittadini in difficoltà come prestito sociale? Anziché come ingrassamento di organizzazioni o enti cui si chiede perennemente di gestire, sostituendosi allo Stato, una emergenza. Con questo non ho nessuna intenzione di denigrare l’importante lavoro che svolgono certune associazioni, che fino ad oggi hanno dovuto sobbarcarsi la responsabilità di questo importante lavoro sociale.
Ritengo, però, che avrebbe un impatto molto differente sulla vita di queste persone, se la persona che riceve un aiuto economico dallo Stato fosse identificato, riconosciuto, legittimato come cittadino (quindi dotato di un documento e di un codice fiscale) e fosse accolto come tale. Immagino un sistema in cui ogni migrante riceva gli aiuti economici e concreti e sia aiutato in un inserimento reale nella comunità. Lo si metta in grado di impegnarsi a restituire, quando e se un domani sarà in grado di farlo, ciò che ha ricevuto, in corrispondenza delle proprie capacità e possibilità. Venga cioè offerta a queste persone non una elemosina, ma l’aiuto di Stato trasformato in un investimento sulla persona, affinché formatosi, istruita, integrata, messa in condizione di dare prova di sé possa anch’essa contribuire allo sviluppo della società tutta. Una società fatta di persone, uomini e donne, non identificata per l’etnia o l’origine, ma per il fine che è comune ad ogni essere umano.
È capitato con gli albanesi arrivati nel nostro Paese alla fine degli anni ’90. Oggi molti di loro si sono pienamente integrati ed hanno lavori regolari, per i quali pagano tasse e contributi e attraverso i quali, soprattutto, contribuiscono giorno dopo giorno alla crescita, non solo economica, del nostro Paese.
Sono convinto che molti ce la faranno, altri no. Noi vogliamo che tutti possano farcela, ma questo dipenderà anche da come si sentiranno accolti. Da come sapremo umanamente accoglierli, poi, potrà nascere l’amore o l’odio, ma certamente considerare l’aiuto come un prestito sociale (come è la disoccupazione o la cassa integrazione) che, se uno potrà, restituirà in futuro può essere un approccio diverso al problema. È evidente come questo mio spunto sia solo una proposta, ma credo ci siano gli strumenti per cambiare l’impostazione di una gestione, che non aiuta né lo Stato, né le organizzazioni buone, né le persone, bianche, rosse, nere o gialle; italiane, europee o extra comunitarie che siano. La possibilità di costruire rapporti umani non deve essere fondata sul denaro per passare la giornata, ma sull’abbraccio umano che solo una società e uno Stato fondato sui principi della nostra intoccabile Costituzione può offrire, se solo la classe dirigente volesse applicarla. (m.r.)
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