Oggi Corea del Nord e Corea del Sud sono più lontane. Si parla sempre più di guerra, e guerra atomica. Al di là delle analisi, più o meno possibiliste su uno scenario così devastante, emerge di nuovo il vuoto legislativo internazionale intorno a quest’arma, esattamente lo stesso problema che si pone verso l’Iran. Si nota inoltre come in momenti di crisi economica riemerga la mai sopita vena militare dell’uomo.
Abbiamo imparato ad essere astutissimi quando si parla di guerra; essa non è mai una parola isolata ma accompagnata da altre, più docili, parole come: “preventiva”, “umanitaria”, “democratica”, “etica”, “santa”. Con questi begli ossimori si giustifica l’intervento francese in Mali come difesa degli interessi della popolazione, si muore ancora in Afghanistan e Iraq come conseguenza delle guerre preventive e di esportazione della democrazia americane, si è ridotta la Cecenia a deserto poiché terra di terroristi.
In Italia, inoltre, abbiamo imparato a non guardare più oltre le nostre coste e le nostre Alpi. I nostri giornali e telegiornali rimbombano cacofonicamente dell’ennesimo processo al noto corruttore, del nulla culturale del nuovo grande inquisitore che sa gridare e dare diktat ma non dialogare per costruire, della mancanza di coraggio di chi aveva la vittoria in tasca e ha fatto tutto il possibile per perdere. La politica in Italia è diventata una spirale che si contorce urlante e asfittica su se stessa.
L’attenzione al mondo intero, la solidarietà, la pace e il pluralismo sono oggi sempre più urgenti per la costruzione di una società che non può più solo guardare al proprio giardino. Il mutamento epocale della nostra società può fare insorgere molte paure e molti ripiegamenti su interessi privatistici, oppure può portare a reprimere le identità. L’uscita da questi pericoli può essere trovata soltanto da chi non opera nel fondamentalismo o nei pregiudizi, ma nell’ascolto, nel dialogo e in condivisione dei bisogni. Dividere insieme il pane sarà sempre più l’unica strada per costruire la pace.
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