La botte e le botte

Dice un vecchio proverbio che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Finora il cittadino privo di malizia si chiedeva come mai le banche, piene di soldi com’erano, non finanziassero l’economia reale. Adesso veniamo a sapere che comprano titoli del debito pubblico. “Ahi vista! Ahi conoscenza!” direbbe il poeta di Tancredi e di Clorinda. L’ingenuo cittadino era lo stesso che si rallegrava quando gli stessi giornali gli annunciavano che le aste andavano benissimo. Però non si chiedeva da che parte arrivavano i soldi. Adesso lo sa. Ora, in un contesto economico nel quale le risorse non sono moltiplicabili ad libitum, è del tutto ovvio che ciò che va da una parte non può andare dall’altra. Sta a sapere quale sia la direzione più utile.

Oggi l’opinione più diffusa è che il denaro nelle mani dello Stato viene speso peggio di quello nelle mani dei privati, ma non si tratta di una verità assoluta. Certo, ci vogliono molte ostriche e champagne per eguagliare un aeroporto inutile, ma la questione è politica, non economica. Oggi la polemica contro il consumismo non è più di moda, perché la crisi ha comunque ridotto i consumi, però la tendenza – che è propria del consumismo – a privilegiare i consumi superflui a scapito di quelli necessari non è veramente revocata in dubbio. Allo Stato, o meglio al governo del momento, si può rimproverare di non usare le risorse che rastrella per ridurre il debito – lasciando così impregiudicato l’esito finale dei sacrifici che impone al paese – però nemmeno il debito è un male in sé e per sé. Come in una famiglia, se ci si indebita per finanziare la spesa corrente si finisce in mano agli strozzini, ma nessuno chiamerebbe imprevidente un padre di famiglia che accende un mutuo per pagare la casa. Di nuovo, non importa tanto chi spende, ma come spende, e questo significa anche che quello che si spende da una parte non si può spendere dall’altra. Ora, quando si dice che lo Stato spende male, ci si riferisce in gran parte al fatto che “spreca” i soldi invece di destinarli agli investimenti. Qui, però, bisogna avere le idee chiare.

Un investimento è un immobilizzo temporaneo (più o meno lungo) di risorse liquide in vista di un rendimento futuro. Tizio pensa di aver messo a punto un buon progetto per fare, diciamo, le ciambelle con i buchi quadri (prodotto altamente innovativo che ha molte probabilità di incontrare il favore del mercato). Però ha bisogno di un po’ di soldi per un capannone, alcune macchine, le prime mensilità dei salari etc. etc. Cerca un finanziatore – diciamo una banca – gli sottopone il suo piano, il possibile finanziatore lo vaglia accuratamente e, se lo giudica valido, gli anticipa una certa somma di denaro. Questo è un investimento, e poiché l’importo relativo viene attinto da risorse già esistenti e disponibili al momento – alla cui liquidità qualcuno dovrà pur rinunciare (in vista di futuri guadagni) – la sua realizzabilità rientra nella dialettica consumi-risparmio che, secondo i classici (fino a Keynes) era essenzialmente una questione di comportamenti privati.

Dopo la crisi del 1929 si affermò l’idea che a volte l’economia avesse bisogno dello stimolo della spesa pubblica, la quale, pertanto, fu sottoposta ad un sensibile incremento rispetto a quella tradizionale. In teoria (ne fanno fede le discussioni dell’epoca) tale incremento si sarebbe potuto finanziare anche con le tasse, ma in pratica risultò non realizzabile se non con il ricorso all’indebitamento. Ora, l’imposizione è un prelievo coattivo mentre il debito pubblico prevede per sua natura che il cittadino chiamato – ma non costretto – a sottoscriverlo riceva un compenso. L’una e l’altro, però, hanno una cosa in comune: si tratta, in ogni caso, di denaro sottratto alla disponibilità (definitiva, nel caso delle tasse, o temporanea) dei privati. C’è però anche una differenza fondamentale: mentre alla tassazione non ci si può sottrarre (salvo che con l’evasione, che è un reato), e perciò le tasse sono generalmente maledette, il debito pubblico, se ben retribuito, può anche essere bene accetto, anzi appetito. Oggi si parla (male) delle banche, ma in Italia c’è stato un tempo – non molti anni fa – nel quale erano le aziende ad essere accusate di investire le loro eccedenze di tesoreria in BOT piuttosto che utilizzarle per investimenti produttivi.

Naturalmente qualcuno si chiederà come mai l’Italia, negli anni passati, abbia potuto accumulare un enorme debito pubblico senza che, al momento, ci siano state conseguenze pesanti sull’economia reale. Il fatto è che, fino ad una ventina d’anni fa, quando non c’erano né l’euro né la Banca centrale europea e la Banca d’Italia era il nostro istituto d’emissione, e non era ancora avvenuto il cosiddetto “divorzio” tra il Tesoro e la Banca stessa (1993), la Banca d’Italia era obbligata ad assorbire tutti i titoli del debito pubblico che le banche non fossero riuscite a collocare sul mercato. Così c’era immissione di liquidità nel sistema senza che vi fosse una corrispettiva limitazione nella disponibilità dei privati. Sembrava di avere trovato la formula della felicità (come avrebbe detto il compianto Quartetto Cetra). Soltanto che si chiamava inflazione, che secondo Keynes equivale all’omicidio. Altri, invece, ancora la rimpiange (insieme con le continue svalutazioni, dette competitive, della moneta) e, quando lamenta che la BCE non sia un “vero” istituto d’emissione, esprime il desiderio di poter tornare alla prassi dell’emissione senza limiti e senza contropartita. Dopo il “divorzio” (sia gloria eterna a Nino Andreatta e a Carlo Azeglio Ciampi) l’inflazione diminuì ma i titoli di Stato, non essendo più collocabili d’ufficio e dovendo trovare compratori sul mercato, dovettero offrire compensi sempre più alti. Questo non ebbe forse ripercussioni negative sui consumi delle famiglie, alle quali, anzi, l’alto rendimento dei BOT forniva un apprezzabile reddito di supporto, ma sugli investimenti sì.

Ora, come tutti sanno – o dovrebbero sapere – la moneta non è altro che un titolo di credito non ben definito ma generalmente accettato in cambio di beni reali. Di conseguenza, se, a causa della recessione, i beni reali spariscono, anche la moneta non vale più niente. Pertanto coloro che affermano che né la tassazione né il debito pubblico possono arrivare a strangolare l’economia reale hanno perfettamente ragione. E qui si ritorna ad un’idea corretta degli investimenti. Purtroppo – e non da oggi, ma per decenni – l’investimento pubblico è stato visto non come un modo per fare con il denaro raccolto dallo Stato cose utili che l’iniziativa privata non faceva (il che giustificherebbe il trasferimento di risorse) ma semplicemente come un modo di sostenere la domanda globale immettendo liquidità nel sistema. In altri termini, l’opportunità di finanziare la costruzione di una fabbrica, di una strada, di una qualsiasi opera pubblica veniva fatta consistere non nel reddito che tali opere avrebbero in seguito potuto dare al paese, ma nell’effetto immediato della spesa sostenuta per costruirle, gli stipendi e i salari che avrebbero pagato, i consumi che avrebbero stimolato. Di qui ad erogare semplicemente salari senza lavoro, sovvenzioni senza contropartita etc. il passo è breve (anzi, in un certo senso persino giustificato dal fatto di non spendere per gli impianti). Ma in questo modo la botte si è svuotata, e non si vedono al momento molti modi per riempirla. Senza contare il fatto che l’intossicato in crisi di astinenza può anche diventare pericoloso.

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