di Aldo Giobbio
Il referendum sulle trivelle non è soltanto una questione di lotta all’inquinamento, per quanto sia importante anche questo aspetto. La vera posta in gioco è la licenza di prendere a gabbo il popol tutto. Ovviamente si può discutere sul fatto se sia accettabile o conveniente rovinare tratti di costa per ricavarne un po’ di combustibile fossile. Però non entro in questo genere di discussione, non perché non sia importante ma perché non c’entra con il referendum. La normativa vigente non vieta (bene o male che sia) di rinnovare le concessioni, e chi si venisse a trovare nella necessità di chiederlo sa benissimo che un governo puro, innocente e audace come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare non glielo negherebbe. La posta in gioco è un’altra. Al concessionario conviene affrontare nuovi impegni quando il pozzo contiene ormai poco e, soprattutto, in un momento nel quale il prodotto si vende male? D’altra parte, chiudere la partita e fare le valigie comporta l’onere di smantellare gli impianti. Meglio, dunque, poter andare avanti sine die, senza impegni aggiuntivi, lasciando che gli impianti vadano a pezzi da soli, finché in fondo al pozzo ci sarà mezzo litro di petrolio che ci si guarderà bene dall’estrarre, se no finisce il gioco. Il vantaggio è duplice: di poter aspettare un eventuale miglioramento delle condizioni di mercato e, forse soprattutto, di poter rinviare fino alla fine dei tempi il costo dello smantellamento. Tutto questo non è esaltante per chi scrive o fa scrivere che il sale della terra è la borghesia audace e amante del rischio, il che era forse abbastanza vero ai tempi di Balzac ma ormai ha smesso da tempo di esserlo. Oggi l’imprenditore schumpeteriano è un reperto archeologico e il cosiddetto capitalismo anela alle posizioni di rendita. Il problema, nel caso specifico, è che l’estrazione del petrolio è rientrata per molto tempo in tale categoria e in questi giorni lo è un po’ meno.
D’altra parte io non critico più che tanto l’uomo d’affari che cerca di fare il proprio interesse. In fondo fa il suo mestiere. Rivendico, invece, come cittadino, il diritto e il dovere di criticare un governo il cui dovere istituzionale dovrebbe essere quello di tutelare l’interesse generale e che invece sembra completamente appiattito su quello del potere finanziario. Per carità, governare è scegliere, e anche un capo di governo ha il diritto/dovere di fare le sue scelte (dopo tutto, è un cittadino anche lui). Però non ha il diritto di raccontare panzane. Inoltre, se è così sicuro di aver ragione, perché, invece di invitare a votare “no”, esorta a non votare? Ė forse un nuovo capitolo della storia infinita che la democrazia è una cosa troppo importante per essere lasciata al popolo? Gli italiani si sono sempre vantati (forse anche un po’ troppo) di essere sottili ragionatori. Forse oggi la loro sottigliezza li porta a concludere che la quintessenza dei diritti del popolo è rinunciare a farne uso? Lo hanno già fatto in passato, in qualche occasione. I risultati non sono stati buoni. (a.g.)
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