di Marco Romani e Raniero la Valle
Il prossimo 12 giugno saremo di nuovo chiamati alle urne per esprimere il nostro voto nel referendum abrogativo riguardante cinque quesiti sulla giurisdizione, promossi allo scopo di correggere o sovvertire funzionamenti ritenuti contrari a una buona amministrazione della giustizia.
Non volendo, per ora, entrare nel merito di essi, ci pare però necessario almeno accennarne il contenuto, seppur in maniera non esaustiva.
Il primo quesito propone l’intera abrogazione della legge Severino ovvero la legge riguardante l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo o la sospensione o decadenza dalla carica a causa di sentenze di condanna e di pene detentive superiori ai 2 anni per reati o delitti non colposi considerati particolarmente incompatibili con le funzioni politiche e di rappresentanza democratica.
Il secondo riguarda la esclusione delle misure cautelari ovvero della reclusione dal novero di quelle che oggi sono inflitte alle persone sotto indagine quando si ritiene che vi sia il pericolo di reiterazione da parte loro dei più gravi reati, ivi compreso il finanziamento illecito dei partiti.
Il terzo comporta una complessa riforma dell’Ordinamento giudiziario e in particolare riguarda la separazione delle carriere tra Pubblici Ministeri, cioè magistrati dell’Accusa e magistrati giudicanti.
Il quarto quesito estende agli avvocati e ai professori universitari la competenza di un giudizio sull’operato dei magistrati.
Infine il quinto quesito riguarda la riforma delle modalità di candidatura dei magistrati al CSM, che non comporterebbero più la raccolta di firme e il formarsi di liste dei candidati.
Va ricordato, al fine di poter comprendere bene la situazione in cui ci troviamo, che il referendum abrogativo è sì una delle possibilità di intervento dei cittadini nella vita politica del Paese, ma al contrario dei disegni di legge di iniziativa popolare (e se vogliamo anche delle petizioni), non è un modo in cui i cittadini possono concorrere a determinare la legislazione, ma è il modo in cui possono solo correggerla mediante la cancellazione di specifiche norme. Non esiste infatti in Italia l’istituto del referendum propositivo, al massimo si può ricorrere al referendum consultivo, ma questa è tutta un’altra storia.
Leggendo i testi dei quesiti sui quali ci dovremo esprimere, la prima constatazione che oggettivamente si può fare è che si tratta di una materia tanto complessa e specifica che non può essere oggetto di un’analisi superficiale, ma andrebbe sviscerata in gruppi di lavoro e nell’ordinario lavoro parlamentare. Non può essere materia di referendum per il semplice fatto che quasi l’intera totalità della popolazione italiana non può sapere su cosa è chiamata ad esprimere il voto, né facilmente può informarsi al riguardo. Ci sono temi così importanti che necessitano di tempo e studio perché possano essere tradotti in legge ed è proprio questo il lavoro a cui, con il voto, vengono delegati i rappresentanti eletti in Parlamento. In questo senso, il terzo quesito del referendum è un capolavoro di incomprensibilità: lungo 7626 caratteri cita almeno un Decreto Regio, due Decreti Legislativi, un Decreto Legge, quattro Leggi ed il Codice di Procedura Penale, per un totale di decine di articoli e commi differenti, provvedimenti dei quali cita solamente titoli e parti da abrogare, togliendoli dal loro contesto e rendendo il tutto quindi di impossibile rapida comprensione.
La situazione è inoltre ancora aggravata dal fatto che, negli stessi giorni in cui saremo chiamati al voto, il Senato discuterà la cosiddetta riforma Cartabia (la discussione è prevista per il 14 giugno, solamente due giorni dopo il referendum), la quale se fosse approvata prima del 12 giugno sarebbe forse tale da far decadere tre dei cinque quesiti.
Perciò, anche alla luce di quanto detto sopra riguardo all’ordinamento del nostro Paese, appare immediatamente chiaro che più che di fronte all’esercizio da parte del popolo di un diritto di intervenire direttamente per abrogare un obbrobrio giuridico, qui ci troviamo chiaramente di fronte ad un’azione che stravolge il senso dello strumento referendario così come pensato nella Costituzione e al tempo stesso priva il Parlamento del proprio ruolo.
Questo referendum è, quindi, la chiara ammissione di un gravissimo fallimento del sistema legislativo da parte del Parlamento, il quale, in pratica, dichiara pubblicamente la propria incapacità a gestire il confronto politico, la discussione, il rapporto tra maggioranza ed opposizione e quindi ammette la propria inettitudine in ordine all’esercizio della propria funzione legislativa, mostrando tutti i limiti di questa legislatura.
Ormai troppe volte, negli ultimi anni, si è palesata questa inconsistenza e non serietà di buona parte della classe politica eletta, tanto che ci domandiamo se il fine della chiamata alle urne non sia ridotto alla propaganda politica più che perseguito per un effettivo desiderio di cambiamento, visto che laddove potrebbero provvedere sono gli stessi parlamentari a fare ostruzionismo al processo legislativo.
Il timore è quello di svegliarsi il 13 giugno, con un inconcludente referendum andato deserto, con una riforma della giustizia ancora in fase embrionale nonostante il voto e con la sola certezza di un Parlamento non adeguato all’alto compito a cui è chiamato.
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