L’improvviso entusiasmo che ha preso molti italiani all’idea di sopprimere senato e province merita qualche considerazione. L’uno e le altre sono peccati d’origine della nostra Costituzione (che non è la migliore del mondo e non lo è mai stata, e non è nata dalla Resistenza). Le province sono eredi dei dipartimenti, inventati dalla Rivoluzione francese ed estesi nel Regno d’Italia da Napoleone con lo scopo di distruggere le ripartizioni storiche del territorio e porre in essere amministrazioni territoriali rigidamente controllate, attraverso i prefetti, dal governo centrale. Come altri istituti ritenuti ben pensati (per esempio la ghigliottina) furono mutuate dai governi della Restaurazione, compreso il Regno d’Italia del 1861. Allora non si aveva la smania della rottamazione (non per nulla si chiamavano conservatori). Il senato ha origini più illustri, o per lo meno più antiche. All’inizio è il tipico organo di governo delle repubbliche oligarchiche. In seguito, dove e quando all’oligarchia si sostituisce di fatto e a prescindere dalla denominazione ufficiale una diarchia nella quale c’è una certa ripartizione del potere tra gli ottimati e il popolo, il senato (camera alta) rimane come uno dei due pilastri del sistema (SPQR = Senatus Popolusque Romanus). Questo vale per i comuni medievali, per l’Inghilterra, per la Francia della Restaurazione, per l’Italia del 1861 etc. Quando c’è di mezzo anche il re (come nel caso dell’Italia) le cose si complicano un poco, ma insomma lo schema fondamentale resta.
Da questo sorge la domanda: quale senso aveva il senato nel 1947? Nessuno. Negli Stati di oggi, il sistema bicamerale, quando ha un senso, continua a riflettere una doppia sovranità, che ovviamente non è più quella dei nobili e del popolo ma, per esempio, negli Stati federali, quella del popolo nel suo complesso e quella degli Stati federati. Ma in Italia non c’è mai stata una doppia sovranità – e nemmeno si può inventare lì per lì: nella Confederazione Elvetica e negli Stati Uniti d’America sono nati prima gli Stati e dopo la federazione. Qualcosa del genere potrebbe succedere in Europa se mai – chissà? – la cosiddetta Unione Europea diventasse una vera Federazione.
La soppressione del Senato in Italia avrebbe dunque tutte le giustificazioni del mondo. Però è ignobile che si pensi solo all’eventuale risparmio sugli stipendi dei senatori quando si lascerebbe sussistere un apparato che oggi ne costituisce il vero onere per il bilancio dello Stato e che continuerebbe a circondare un istituto ancora più inutile. La soppressione totale avrebbe un senso; quello che oggi si vorrebbe fare non ne ha. Dal punto di vista delle istituzioni, lasciando invariato il resto (in particolare escludendo l’ipotesi di una repubblica presidenziale), la soppressione del Senato significa regime d’assemblea. Quindi, se non vogliamo finire nella dittatura, il nuovo regime richiederebbe profonde riforme nei poteri della Camera, nella sua composizione e nelle garanzie relative ai modi della sua elezione – tutte cose per le quali non si può dire che la Camera quale è oggi costituisca un esempio degno di imitazione.
Di fronte a questi problemi fondamentali per la democrazia, la questione delle province sembra piuttosto secondaria. Che siano inutili (una volta superato il loro compito storico di fare da cane da guardia ai comuni che eventualmente si fossero trovati con amministrazioni non gradite al governo centrale) sembra abbastanza evidente a tutti. Anche in questo caso, però, colpisce che si faccia tanto caso agli stipendi dei consiglieri e non al costo dell’apparato, che sembra non sarebbe toccato. Per altro, se l’ente è inutile, lo dovrebbe essere anche lo strumento delle sue opere, e a maggior ragione lo dovrebbe diventare il giorno nel quale l’ente stesso dovesse scomparire. In tutto questo, come nel caso – certamente più grave – del Senato, sembra di avvertire un certo fumus persecutionis, che oltre tutto sembra abbia una certa parentela con il fumo che va negli occhi. (a.g,)
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