E così, il 19 ottobre, la Corte d’appello di Milano, adempiendo all’incarico ricevuto dalla Corte di cassazione, ha ricalcolato la durata del periodo di interdizione di Silvio Berlusconi dai pubblici uffici, rimediando a quello che, a quanto sembra, era stato un mero errore materiale. La lodevole rapidità con la quale la Corte d’appello ha fatto il suo dovere può aprire qualche domanda sgradevole relativamente alla sceneggiata in corso (con escursioni sul terreno dell’amnistia) per l’applicazione della legge Severino, che è ancora in ballo quando i giudici di Milano hanno già finito. Viene, infatti, da chiedersi se valeva la pena di fare tanto chiasso quando comunque si sapeva che i giudici avrebbero deciso in tempi brevi.
A quanto sta succedendo si può dal punto di vista dei promotori addurre, oltre quella che si tratterebbe di un atto dovuto, una giustificazione non trascurabile. Bisogna escludere l’ipotesi ingiuriosa che qualcuno temesse che i giudici di Milano avrebbero soppresso la pena accessoria. Questo non era possibile, dopo che la Cassazione aveva stabilito che la pena era stata calcolata male, non che non fosse dovuta. Quello che, invece, gli avversari di Berlusconi potevano temere è che la pena sarebbe stata troppo mite. In effetti, con due anni, a meno che le elezioni non si svolgano a tambur battente, Berlusconi potrebbe anche ritrovarsi in pista. Qui certamente c’è una notevole differenza, perché la legge Severino stabilisce che le sanzioni che essa prevede si debbano applicare comunque, anche se la sentenza di riferimento non avesse irrogato l’interdizione, e che, nel caso essa sia stata irrogata, debba essere raddoppiata e comunque non debba risultare inferiore ai sei anni, il che effettivamente impedirebbe a Berlusconi di partecipare alle prossime elezioni anche nel caso che la legislatura arrivasse alla sua scadenza naturale.
C’è però un problema, ed è che la legge Severino finirà prima o poi davanti alla Corte europea. Non per la questione della sua supposta retroattività, perché questa non è altro che una bufala (con tutto il rispetto per il WWF). In effetti, la legge non entra nel merito dei capi d’accusa e nemmeno della data alla quale sarebbero stati commessi i fatti che hanno dato materia al procedimento, ma si limita alla constatazione dell’esistenza di una condanna, e non c’è dubbio che questa sia stata emessa quando la legge era già in vigore. No, il punto è un altro. L’interdizione – o la decadenza, se si tratta di persona già insediata nella carica – è presentata nella legge con tutte le caratteristiche di un automatismo: i soggetti preposti all’esecuzione devono solo prendere atto e procedere, non hanno poteri giudicanti. Tranne che in un caso: quello dei parlamentari nazionali. Non i consiglieri regionali, non i membri del Parlamento europeo. Quello dei deputati e dei senatori è il solo caso nel quale si faccia riferimento all’art. 66 della Costituzione, secondo il quale “ciascuna Camera giudica” sui titoli di ammissione e sulle eventuali cause di incompatibilità: giudica – si noti – non semplicemente procede, il che significa che potrebbe anche dire di no. Lasciamo stare, per ora, i consiglieri regionali, ma mi sembra evidente che la prima volta che una simile avventura capiterà ad un parlamentare europeo l’interessato porterà la questione alla Corte di Strasburgo: perché loro sì e io no? Oggi c’è almeno un parlamentare europeo in tale condizione, Dell’Utri. Sarà interessante vedere come andrà avanti la sua storia. Naturalmente, l’Italia si difenderà affermando che la legge non poteva fare diversamente, visto che l’art. 66 della Costituzione era già lì, ma, a mio parere, non farebbe che cacciarsi dalla padella nella brace (ovvero, come avrebbero detto ai tempi della Serenissima, “pexo el tacón che el buso”). Immagino le reazioni: “Ah, questa sarebbe la Repubblica «democratica» prevista dall’art. 1 della stessa Costituzione? E questa sarebbe la «madre del diritto»?”. Pfui! (a.g.)
→ Leggi l’approfondimento dell’autore sull’immunità parlamentare
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