di Aldo Giobbio
Nel 1895, quando la Confederazione Elvetica espulse dal Canton Ticino un gruppo di anarchici, uno di loro, Pietro Gori, compose una canzone di un certo pregio letterario, che è poi diventata famosa con il titolo di Addio Lugano bella e nella quale si trovano i seguenti versi: “Elvezia il tuo governo / schiavo d’altrui si rende / di un popolo gagliardo / le tradizioni offende / e insulta la leggenda / del tuo Guglielmo Tell”. Questa strofetta viene irresistibilmente alla mente quando si vedono in tv esponenti del paese legale affermare tranquillamente che l’art. 18, di per sé, non sarebbe poi questo gran problema; il problema è che i possibili investitori stranieri, male informati e poco portati ad approfondire, si sarebbero messi in testa che lo sia, e perciò non investiranno in Italia il becco di un quattrino finché tale zeppa non sarà stata tolta di mezzo. Ora, è pur vero che la Costituzione (art. 11) ammette le limitazioni di sovranità; tuttavia colpisce non poco che si pensi che un paese nel quale “dall’Alpi a Sicilia / ovunque è Legnano” quando si tratta di non rispettare le quote latte o un qualsiasi altro impegno liberamente assunto verso l’Unione europea, possa accettare come se niente fosse di modificare un punto del nostro diritto del lavoro non secondario e ricco di valenze politiche.
In realtà l’accanimento contro l’art. 18 è guerra ideologica. Più di mezzo secolo fa, quando Giuseppe Di Vittorio e Oreste Lizzadri presentarono il primo disegno di legge sulla giusta causa, Leopoldo Piccardi (che allora era la punta socialmente più avanzata del Partito Radicale) pubblicò sul Mondo di Pannunzio (numeri del 5 e del 19 marzo 1957) due articoli (“Cause giuste e cause ingiuste” e “Il sogno della stabilità”) decisamente contrari. Il primo, riconoscendo la drammaticità del problema e la buona fede dei presentatori, si limitava a collocare la giusta causa, insieme con il blocco dei licenziamenti e l’imponibile di manodopera, nella “famiglia” delle “misure che tendono a rendere sempre più corporativo e sclerotico l’assetto sociale del nostro paese”. Fin lì lo scontro era ancora ad armi cortesi. Molto più puntuto (pur nell’impeccabile signorilità dello stile) fu invece il secondo articolo, scritto come risposta alle osservazioni relative al primo che Lizzadri aveva pubblicato nell’Avanti! del 7 marzo. Ovviamente Lizzadri aveva replicato che la proposta di legge non impediva i licenziamenti, ma solo quelli ingiustificati; dopo tutto, il giudice poteva anche dar ragione all’azienda. Non erano ancora arrivati i tempi nei quali a questo tipo di argomentazione si rispondeva con il vilipendio dei giudici del lavoro; del resto Piccardi, che proveniva anch’egli dalla magistratura (Consiglio di Stato), non era persona da scendere a tale livello. Perciò la sua risposta è particolarmente importante, perché riguarda non l’eventuale insufficienza del giudice ma la competenza stessa dell’autorità giudiziaria. «I proponenti – scrisse Piccardi – hanno dimenticato un’esigenza fondamentale a un’impresa economica, non soltanto in un sistema capitalistico ma, direi, anche in un regime collettivistico: l’esigenza dell’unità di comando. Chi ha la responsabilità della gestione deve avere, entro i limiti segnati dagli scopi che l’impresa si propone, libertà di manovra dei fattori della produzione. Quando questa libertà si scontra con i poteri di intervento affidati ad autorità giudiziarie o amministrative, l’unità di comando si frantuma, e con essa scompare ogni possibilità di una direzione responsabile». Il termine “unità di comando” non è forse scelto bene, perché riguarda l’organizzazione del vertice aziendale (che è questione interna all’azienda) piuttosto che i rapporti tra l’impresa ed eventuali soggetti esterni, compreso lo stato. Il senso, però, è molto chiaro: quale che sia la manovra, non disturbate il manovratore.
Una ventina d’anni dopo, quando lo Statuto dei lavoratori era già in atto da qualche tempo, feci da giornalista un’inchiesta per verificare l’atteggiamento delle imprese. L’esito fu piuttosto sorprendente. Non era difficile intuire che l’art. 18 potesse aver dato qualche fastidio, sul piano operativo, soprattutto alle piccole e medie imprese, nelle quali il capo spesso e volentieri doveva far tutto da solo, non aveva particolare dimestichezza né con le aule giudiziarie né con le sottigliezze del diritto del lavoro, doveva affrontare spese legali spesso non indifferenti per il suo modesto bilancio, e così via. In realtà, dato il giusto peso all’inevitabile mugugno, non riscontrai nei piccoli reazioni radicalmente negative, in quanto l’imprenditore sostanzialmente trovava giusto (anche se scomodo) che un eventuale contrasto fra interessi privati ambedue legittimi dovesse essere deciso da un giudice imparziale esterno all’azienda. Al contrario le grandi imprese, che disponevano di fior di uffici legali e potevano gestire le vertenze senza troppi traumi, vivevano l’intervento esterno come una violazione di sovranità. Ridotta all’osso, la loro tesi era che l’azienda, attraverso la propria organizzazione, era in grado di riparare eventuali ingiustizie che si fossero situate a qualsiasi livello della gerarchia. Se invece si fosse trattato di un conflitto tra un dipendente e l’azienda in quanto tale, quest’ultima avrebbe dovuto prevalere in quanto portatrice di valori superiori a quelli di un semplice privato. L’interesse dell’impresa non ne faceva tanto un soggetto legibus solutus quanto una vera e propria fonte del diritto.
Che la cosiddetta missione (ovvero carisma) renda il suo portatore (vero o presunto) superiore alla legge ordinaria è un virus che purtroppo ci portiamo dietro almeno dalla Rivoluzione francese e che ha trovato largo campo di applicazione in politica, specialmente là dove il carisma era incerto. E per la verità anche nel caso dell’impresa non sempre è chiaro in che cosa consista la sua missione (“gli scopi che l’impresa si propone”, come scriveva Piccardi). Se essa, per esempio, dovesse consistere semplicemente nel massimizzare il profitto per i suoi azionisti (si vedano gli studi del prof. Luciano Gallino) sarebbe arduo sostenere che uno scopo del genere, per quanto legittimo, abbia una dignità tale da porsi addirittura al di sopra della legge. Ma anche accettando l’idea che lo scopo (da dimostrare) possa essere produrre ricchezza per il paese, non se ne può dedurre che lo stato ne debba restare fuori. Anzi. Anche nel caso che il lavoratore licenziato ad nutum trovasse immediato ristoro in un generoso sussidio di disoccupazione, il problema non sarebbe risolto, perché si eviterebbe, sì, un risvolto drammatico per la persona coinvolta ma, sotto il profilo macroeconomico, l’operazione si risolverebbe in un passaggio arbitrario di oneri dal bilancio dell’azienda a quello dello stato, e non è ammissibile che chi è chiamato ad amministrare il denaro del contribuente si possa ridurre a semplice ufficiale pagatore, rinunciando al diritto/dovere di mettere il naso nell’origine e nella giustificazione della spesa. Non è solo una questione di soldi.