Le tombeau de Richard Cobden

Il pianto greco che si sta alzando a proposito di una tenuissima calata dei prezzi, con tendenza a trasformarsi in un’operazione retorica mirante ad instillare nel pubblico il concetto che la discesa dei prezzi è la causa (e non, semmai, la conseguenza) della recessione, merita qualche riflessione. Quando, negli anni ’40 del XIX secolo, Richard Cobden riuscì a convincere il Parlamento inglese a liberalizzare il commercio dei grani, i soli a protestare furono i proprietari terrieri, che perdevano le loro rendite ricardiane. In realtà i più colpiti erano i produttori marginali, che a quel punto andavano sotto zero, ma a loro si spiegò che si potevano rifare andando a cercar lavoro in città, dimostrando una volta di più che, in ultima analisi, sono sempre i poveri cristi i pagatori di ultima istanza. I più entusiasti furono naturalmente gli industriali, che sfruttarono la doppia possibilità di limitare i salari attraverso l’implicito aumento del loro potere d’acquisto e la maggiore offerta di braccia degli inurbati, ai quali del resto si trovò il modo di spiegare che dal passaggio dall’agricoltura all’industria avrebbero tratto vantaggio anche loro (questa, comunque, è la versione canonica degli storici dell’economia liberali, che vedono in quell’episodio un momento fondamentale dello sviluppo economico dell’Inghilterra).

In tempi più vicini a noi, i primi anni ’50 del secolo XX, la Fiat vendeva a 170 mila lire i suoi frigoriferi da 170 litri. La Ignis lanciò sul mercato a 115 mila un modello da 165 litri, buttò la Fiat fuori del mercato, mise un frigorifero in ogni famiglia e dimostrò non che il frigorifero era un prodotto di nicchia e perciò comportava una produzione modesta che necessariamente ne teneva alto il prezzo, ma che era proprio l’alto prezzo di vendita a confinarlo in una nicchia. Operazioni del genere erano una volta citate dagli economisti come un’illustrazione del principio che “il prezzo crea il mercato”. Chissà se  lo ricordano ancora. In ogni caso, nessuno, anche oggi, considera come una iattura cosmica il fatto che un pc costi ora meno di vent’anni fa.

Che ci sia un contrasto di fondo tra chi vende e chi compra è cosa più che ovvia, come è pure ovvio che tale contrasto coinvolga i rispettivi aventi causa, per esempio i dipendenti di chi vende e, dall’altro lato, i fornitori di beni (e i loro dipendenti) ai quali i possibili compratori prima non pensavano ma si accorgono di poter prendere in considerazione quando la minore spesa relativa agli altri acquisti lascia loro in tasca qualche soldo in più (è il mercato, bellezza!). Visto sotto questo profilo, il calo del prezzo di un bene qualsiasi apre sempre qualche altra possibilità. Però i prezzi possono calare per motivi diversi. Quando il prezzo di vendita si abbassa perché cala, per innovazione di prodotto e/o di processo, il costo di produzione, l’effetto è sempre positivo: tutta la storia dello sviluppo economico occidentale lo dimostra, ed evidenzia che ai due estremi del percorso si trovano due fattori: la ricerca scientifica e tecnologica (a monte) e la concorrenza (a valle), con l’annessa capacità di creare anelli di retroazione positivi (ossia di alimentarsi a vicenda).

Naturalmente, l’ideale del venditore sarebbe di potersi assicurare il prodotto a prezzi sempre più bassi senza per altro abbassare il prezzo di vendita. Questo però presuppone un’economia di tipo schiavistico (lavori forzati) a monte e di monopolio (o quasi) a valle. La sola logica dell’economia di mercato non basta per mantenere a lungo posizioni del genere: i padroni del vapore hanno sempre bisogno di un appoggio politico (in un modo o nell’altro). Non esiste schiavitù economica se non c’è anche schiavitù politica. L’essere arrivati per primi sul mercato con un certo prodotto può assicurare per un certo tempo un certo dominio sui prezzi e consentire guadagni anche molto cospicui. Dopo un po’, tuttavia, lo stesso meccanismo porta sul mercato altri produttori e venditori, e la loro concorrenza tende necessariamente a far calare i prezzi, e quindi anche il margine di guadagno (Karl Marx, economista molto più liberale, sotto il profilo scientifico, di quanto di solito non si creda, chiamava questo fenomeno “caduta tendenziale del tasso di profitto”). Negli anni ’50 del XX secolo, quando il cosiddetto “pensiero unico” non aveva ancora istupidito del tutto le menti occidentali, gli economisti più creativi incitavano all’innovazione continua, in base, appunto, alla considerazione che il suo sfruttamento è limitato nel tempo (oggi solo l’industria farmaceutica sembra continui a far tesoro di questo suggerimento).

Si potrà osservare che, se oggi i prezzi scendono (di poco, non esageriamo), ciò avviene non per motivi così raffinati ma più rozzamente perché i consumatori sono senza soldi e perciò tendono a consumare di meno. Certo. Però il problema non sta in questo naturale e umanissimo fenomeno, ma nel fatto che esso venga presentato al pubblico come se fosse il preludio della catastrofe. Al contrario, le difficoltà dovrebbero piuttosto aguzzare l’ingegno dei produttori e dei venditori, se avessero ancora quelli che Keynes chiamava gli animal spirits, ossia le reazioni istintive, degli imprenditori. Una volta le avevano, come quando inventarono la Vespa e la Lambretta o le “giardiniere” con la carrozzeria di legno. Ma oggi? Guardiamoci intorno. La maggior parte dei prodotti in vendita sono perfettamente inutili e, già da tempo, servivano solo a raschiare il fondo delle tasche di consumatori che, non essendo poverissimi, facevano meno caso a come spendevano i loro soldi, ma oggi che ci devono badare non fanno troppa fatica a distinguere il necessario dal ridicolo. Con tali abitudini e le disposizioni di spirito che esse hanno generato, è molto difficile gestire i momenti difficili. Si rimane attaccati al modello, mentre potrebbe anche esserci l’occasione buona per cambiarlo. Però questa non è una società di imprenditori, ma di rentiers e di speculatori, e gli animal spirits sono anch’essi molto diversi.  Si potrà dire che cambiamenti di rotta di tale ampiezza e che comportano anche revisioni forse spiacevoli sul piano culturale non si fanno in un quarto d’ora. Esatto. Però, se abbiamo deciso di parlare seriamente e di non prenderci più in giro, smettiamo anche di dire che la crisi è nata ora e che per porvi rimedio si deve continuare sulla vecchia strada, con i vecchi metodi (come l’immissione indiscriminata di liquidità) che l’hanno tenuta a balia. (a.g.)   

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