Sistemi elettorali

Non esiste la possibilità di elencare in modo ragionato tutti i sistemi elettorali, data la loro grande varietà. Quelli immaginabili sono praticamente infiniti; le varianti di quelli concretamente applicati sono comunque moltissime. Quello che si può tentare di fare è cercare di raggrupparli secondo ciò che si propongono e la coerenza con i fini che dicono di avere. Concettualmente si possono dividere in due categorie: quelli che cercano di ottenere una rappresentazione dell’elettorato il più possibile ampia e fedele, a costo di trasferire negli organismi rappresentativi le stesse divisioni che eventualmente si trovassero nel paese, e quelli secondo i quali un governo quale che sia è comunque meglio di un governo che non si riesce a fare, anche se rappresenta solo una parte dell’elettorato e la sua elezione è avvenuta in modo più o meno avventuroso. La scelta tra rappresentatività e governabilità è in ultima analisi un giudizio di valore (che cosa è più importante per lo stato, per il popolo, per la democrazia?) al quale fa capo il giudizio di legittimità sulla soluzione da adottare.

Ancora più a monte c’è un’altra scelta per così dire filosofica: se compito degli elettori sia scegliere il governo oppure eleggere qualcosa che abbia altri incarichi (per esempio vigilare sul comportamento del governo stesso). Storicamente (almeno dal XVII secolo in poi) gli organi rappresentativi sono nati in presenza di esecutivi (quelli delle varie monarchie) già consolidati e si sono presentati come una risposta all’esigenza di tenerli a freno, salvo poi a trovarsi sempre più coinvolti proprio nella formazione dell’esecutivo, in origine non prevista, e dover cercare una risposta all’esigenza di dare all’esecutivo quella possibilità di funzionare che, a causa delle rappresentanze stesse, esso stava perdendo.

È il caso, per esempio, della repubblica parlamentare (come l’Italia) nella quale il parlamento esprime l’esecutivo ma lo dovrebbe anche controllare. In pratica questo significa che dovrebbe controllare sé stesso. È inoltre vero che in realtà il corpo elettorale elegge il governo, però indirettamente, o meglio lo eleggerebbe se il parlamento fosse omogeneo. Se non lo è, la dialettica fra i vari raggruppamenti sottopone la nascita e l’esistenza del governo a vari alti e bassi che ne minano la stabilità e ne limitano l’azione, ma in ultima analisi sono anche la ragion d’essere del parlamento stesso, che altrimenti non si capisce che cosa ci starebbe a fare. Non c’è nulla di male in una repubblica presidenziale, a patto di chiamarla con il suo nome e purché restituisca al parlamento la sua funzione originaria di organo di controllo (questo, però, è precisamente ciò che non piace a molti).

Una volta stabilito che cosa dovrebbe fare il parlamento, diventa più facile orientarsi nella scelta del sistema elettorale. È evidente che il sistema proporzionale è quello che corrisponde meglio all’idea di governo rappresentativo. L’obiezione che gli viene fatta è che, se il parlamento è l’arbitro del governo, il frazionamento del parlamento stesso può renderne molto difficile il funzionamento o addirittura impedirne la formazione. A questo non c’è ingegneria parlamentare che possa rispondere, perché un parlamento frazionato riflette un paese frazionato. È chiaro che si tratta di una sciagura, è chiaro che bisogna trovare un rimedio, ma il rimedio si può trovare solo altrove, sia questo “altrove” un risveglio di spirito civico o un colpo di Stato (la storia presenta pochi esempi del primo e molti del secondo). Se si ritiene impraticabile o comunque troppo pericoloso il sistema proporzionale, le soluzioni possono essere diverse, ma tutte hanno un denominatore comune: sono espedienti più o meno ingegnosi, più o meno ipocriti, per assicurare, o almeno rendere più praticabile, il governo di una parte. La scelta a monte è già quella di considerare il volere della maggioranza come se fosse quello della totalità. Subito dopo viene quella di trasformare in maggioranza una minoranza, che può anche essere costituita da una sola persona (monarchia elettiva, repubblica presidenziale). È evidente che, poiché questo fatto risolve almeno in parte il problema della governabilità, si può lasciare maggiore libertà nella costituzione dell’organo di controllo; anzi, è bene che tale libertà sia massima, altrimenti il controllo sarà sempre difettoso. In ogni caso, si ha un certo rispetto della democrazia, o almeno della divisione dei poteri, solo se l’elezione dell’esecutivo e quella dell’organo di vigilanza avvengono con votazioni separate.

Non si verifica tale esigenza nel sistema cosiddetto maggioritario (o uninominale), nel quale il corpo elettorale viene suddiviso in un certo numero di collegi (corrispondenti ai seggi da occupare) e in ogni collegio viene eletto solo il primo arrivato, cioè chi abbia ottenuto la maggioranza relativa (sistema inglese). Innanzi tutto tale sistema elimina qualsiasi possibilità di essere rappresentata in parlamento per qualsiasi forza che non sia sufficientemente concentrata in qualche collegio, anche se non è trascurabile a livello nazionale (non per nulla l’Inghilterra diventò uno Stato relativamente liberale solo dopo la riforma elettorale del 1832, che aveva eliminato o almeno ridimensionato la scandalosa suddivisione dei collegi). Questo, è ovvio, porta alla concentrazione e a quello che comunemente si chiama bipartitismo, che non sarebbe un male finché non diventa convivenza artificiosa di correnti troppo diverse (in Italia la DC saltò non perché la concorrenza esterna fosse troppo forte, ma perché lo erano le sue divisioni interne). Il bipartitismo assicura, almeno nei numeri, la governabilità, perché è ovvio che, dei due, uno riuscirà ad avere qualche collegio più dell’altro. Però, a seconda delle maggioranze ottenute nei diversi collegi, il partito vincitore può avere la maggioranza in parlamento ma non nel paese, cosa che per quanto riguarda il clima generale nel quale si svolgerà la sua azione non è proprio il meglio. Inoltre, per tutta la durata della legislatura, l’opposizione conta come il due di coppe, e anche questo non è proprio la quintessenza della democrazia. Gli inglesi riflettono su queste cose da trecento anni, e i correttivi che hanno trovato e via via riscoprono non sono di ingegneria costituzionale, ma affondano le radici nella loro storia. Questo rende il loro modello rispettabile ma di difficile esportazione quando le premesse non siano dello stesso tipo. (a.g.)

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